“Zombie” di Joyce Carol Oates, il racconto del cannibale di Milwaukee
È stata pubblicata a fine maggio la nuova edizione italiana di Zombie di Joyce Carol Oates da Il Saggiatore nella traduzione di Marco Pensante. È il 28 novembre 1994. Siamo all’interno del Columbia Correctional Institution, un carcere di massima sicurezza nel Winsconsin. Siamo nella palestra del carcere, durante il turno delle pulizie, assegnato a Jesse Michael Anderson, un assassino condannato per l’omicidio della moglie, Christopher Scarver, all’ergastolo anch’egli per omicidio, e Jeffrey Lionel Dahmer, conosciuto come il Milwaukee cannibal. Tutto va come deve andare, i tre si mettono al lavoro sotto gli occhi delle guardie penitenziarie, ma quando queste ultime lasciano per qualche minuto i tre non sorvegliati, Christopher Scarver si procura uno degli attrezzi per gli esercizi, una barra di metallo lunga più di mezzo metro con la quale picchierà Anderson (che morirà due anni dopo, quando i dottori che lo hanno preso in cura staccheranno la spina ai macchinari che lo tengono in vita), non prima però di aver colpito Dahmer, che Scarver disprezza per i suoi crimini e che ucciderà con un colpo in testa, dopo averlo seguito negli spogliatoi. Scarver dirà che Dahmer aveva inoltre schernito i suoi compagni, facendo passare cibo misto a ketchup come arti mutilati di cadaveri.
Potremmo tornare indietro di due anni e mezzo prima di questo evento, al 15 febbraio 1992, quando la notizia che Jeffrey Lionel Dahmerè stato condannato all’ergastolo fa il giro del mondo. Oppure potremmo guardare al giorno del suo arresto, il 22 luglio 1991, quando Tracy Edwards, maschio trentaduenne, riesce miracolosamente a scappare dall’appartamento di Dahmer, dove ritorna con tre poliziotti che, immobilizzato il padrone di casa, ritrovano all’interno dell’abitazione quattro teste mozzate, sette teschi, un cuore, un intero torso nel freezer, una borsa di organi, un paio di mani recise, due peni mozzati e conservati, uno scalpo, altri tre torsi immersi nell’acido e settantaquattro pellicole Polaroid in cui sono stati impressi gli smembramenti dei corpi delle sue vittime. Oppure potremmo fare un passo ancora più lungo e andare all’estate del 1978, quando un Jeffrey appena diciottenne, fresco di diploma, dopo un’adolescenza in cui ha scoperto la sua omosessualità e ha avuto comportamenti bizzarri, uccide un amico venuto a casa sua per bere un paio di birre, approfittando dell’assenza dei suoi genitori, per poi denudarne il cadavere e masturbarcisi sopra. Potremmo scavare tra i report della polizia americana, passare in rassegna le prove delle stragi, leggere tutte le interviste e le deposizioni, trascorrere ore e ore davanti alle immagini degli innumerevoli servizi televisivi e articoli di giornale di tutto il mondo. Potremmo fare tutto ciò per capire Dahmer, il suo metodo d’azione, e forse per i più ambiziosi arrivare a focalizzare anche le più nascoste sfumature della sua personalità malata; sarebbe sicuramente un’esperienza forte, forse troppo. Tanta follia all’interno di un’unica mente, molti gli aspetti che non riusciamo a capire. Potremmo fare tutto ciò, ma questa matassa di fatti, di scempi, di cadaveri, rimarrebbe sempre qualcosa esterno ed estraneo a noi, qualcosa che siamo in grado di vedere, di riconoscere, di condannare, di disprezzare.
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Ma cosa succederebbe se una personalità del genere la conoscessimo con occhi diversi? Magari con quelli delle sue vittime, che all’inizio non potevano pensare di avere a che fare con un killer necrofago, cannibale e pluriomicida? O magari con quelli della buona e vecchia cara nonna, che vede il suo nipotino sempre con gli stessi occhi di quando aveva due, tre, quattro anni? O, come tenta di fare ormai da anni un’intera generazione di thrilleristi e noiristi sulla scia di testi cardine del genere come A sangue freddo di Truman Capote, Io sono Dio di Giorgio Faletti o come L’avversario di Emmanuel Carrère, dalla prospettiva o con gli occhi stessi del “mostro” e di chi gli sta accanto?
È probabilmente da queste domande, a dirla tutta nemmeno troppo originali, che mi piace pensare sia nato Zombie di Joyce Carol Oates, un libro pubblicato per la prima volta nel 1995 (l’anno seguente alla morte di Dahmer) e ispirato direttamente alla vicenda del Milwaukee cannibal e al suo protagonista, vincitore dell’edizione dello stesso anno del Bram Stoker Award for Novel, il premio per l’eccellenza americana del romanzo horror presieduto dalla Horror Writers Associations,istituito nel 1987 il cui albo dei vincitori è dominato da Stephen King, che negli anni si è aggiudicato senza troppe sorprese cinque delle ventisette edizioni (una ogni cinque e mezzo).
Quentin P., il protagonista del romanzo ispirato alla figura di Dahmer, ci prende per mano – una mano, la sua, fredda, gelida e ferma – e ci accompagna, come ci dice la presentazione inglese del romanzo su Goodreads, «non in uno scritto sulla pazzia, ma in uno scritto sulla logica della pazzia», una follia fatta di ingenuità e di scaltrezza, di cadaveri nascosti in vasche da bagno e di padri che sono rispettati professori di università, di furgoncini scassati e giovani studenti universitari provenienti dall’estero (perché altrimenti i genitori americani al momento della sparizione si preoccupano e li cercano subito; cosa ben diversa con un genitore che se ne sta dall’altra parte del mondo). La famiglia non crede all’accusa che l’ha portato a essere condannato per molestie sessuali, cerca di aiutarlo dimostrandosi fiduciosa nei suoi confronti, e come risposta Quentin continua a sezionare cadaveri e usarli per le sue distorte fantasie sessuali e non solo.
Dimenticate The Walking Dead: gli zombie della Oates sono diversi, sono giocattoli ma rappresentano aspirazioni, sono innocui ma potenzialmente funzionali nelle mani di un folle e, cosa più importante, potrebbero essere ancora uomini se non fosse per il loro assassino/creatore. Grazie alla penna della scrittrice statunitense, uno dei più crudi fatti di cronaca della storia americana diventa un documentario di parole sulla pazzia più inspiegabile, un insieme orchestrato di inquadrature e prospettive di stampo narrativo su un soggetto che nasce letteralmente che origina direttamente dalle pagine della cronaca. Questo, in breve, il senso e il pregio di ripubblicare Zombie di Joyce Carol Oates.
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