Vittorio De Sica, 40 anni senza l’uomo che ha inventato l’Oscar al miglior film straniero
In effetti sarebbe più corretto affermare che Vittorio De Sica è stato l’uomo per il quale è stato inventato l’Oscar al miglior film straniero. Fu proprio per premiare Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette (1947) che l’Academy Award istituì dapprima quello che venne definito come “Oscar onorario” e che poi è diventato permanentemente il premio più ambito per la cinematografia extra-hollywoodiana, e tornato di nuovo a esaltare le qualità di De Sica nel 1960 con il riconoscimento all’interpretazione di Sophia Loren ne La Ciociara da lui diretto.
È così che ci piace ricordare l’attore e regista nato a Sora nel 1901 e di cui oggi ricorrono i quarant’anni dalla scomparsa, attraverso i piccoli e grandi aneddoti che hanno segnato una carriera per la quale nessuna definizione, nemmeno la più iperbolica, basterebbe.
Un altro, in apparenza banale, è che rifiutò «sgarbatamente» di dirigere i film tratti dal Don Camillo di Giovannino Guareschi. L’episodio è il seguente: nel 1947 Guareschi cedette alla Cineriz di Angelo Rizzoli i diritti per la riduzione cinematografica del suo celebre Don Camillo; alla ricerca di un regista, Rizzoli interpellò una serie di figure di spicco (Camerini e Frank Capra, tra gli altri). Tra i candidati anche Vittorio De Sica che, tuttavia, declinò fermamente, quasi sprezzante, scrivendo perfino una lettera a «L’Unità» al riguardo. Qualche anno più tardi spiegherà in questo modo le ragioni del rifiuto: «Umberto D. fu prodotto da Angelo Rizzoli […]. Per la verità Rizzoli non ne voleva proprio sapere […]. Per un anno mi aveva offerto insistentemente la regia di Don Camillo, dicendo: “Guarda Vittorio, fammi prima Don Camillo e poi ti faccio fare Umberto D.”. Mi offriva cento milioni per Don Camillo. Sa Dio quanto mi costasse rifiutarli. Replicavo: “Concediti il lusso di fare Umberto D., così come da editore ti concedi di stampare un classico”. La spuntai»[1] .
Umberto D.,come lo stesso De Sica ebbe a dire, fu: «un’opera difficile e forse ingrata».Ma molto, molto amata dal suo regista che la difese senza sconti da censure e polemiche. La più celebre quella costruita da Giulio Andreotti che accusò il film, in una lettera aperta, di ledere l’immagine del Paese e della sua «progredita legislazione sociale», mettendo in piazza «i panni sporchi» degli italiani attraverso l’amara parabola di un vecchio pensionato che cerca e non riesce a sopravvivere con le magre 18.000 lire al mese della propria pensione statale.
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Umberto D. è un film «duro e problematico» che di fatto stona negli anni del boom economico. Eppure, cosa c’è di diverso in Umberto Domenico Ferrari rispetto ai precedenti sciuscià costretti a scontare una pena brutale, o dall’umiliante peregrinazione di un padre in cerca della propria bicicletta rubata, unico mezzo per garantirsi lavoro e sostentamento, piegato dall’indifferenza fino alla spietata decisione di rubarne, a sua volta, una, sotto lo sguardo innocente e già offeso dalla vita del figlio? Lo stesso sguardo candido del piccolo Pricò, il bambino ostaggio del fallimento del matrimonio dei genitori ne I bambini ci guardano (1943). Cosa c’è, dunque, di diverso?
C’è l’avversità dei tempi, c’è la volontà, e non solo politica, di screditare la validità di quella stagione culturale italiana del secondo dopoguerra conosciuta come neorealismo, capziosamente arruolata dal comunismo come propria bandiera artistica e, di conseguenza, contrastata e attaccata dopo che le elezioni del 18 aprile 1948 avevano decretato la sconfitta della sinistra nella nuova Italia democratica e repubblicana. Se prima di quella data l’approfondimento psicologico della realtà, «la realtà che rompe tutti gli schemi, respinge tutti i canoni che non sono altro in sostanza che codificazione di limiti» per dirla con Cesare Zavattini (che di tutti i film succitati fu lo sceneggiatore, l’alter ego letterario di De Sica, formando con questi un tandem di eccezionale spessore), se la realtà, come si diceva, nell’immediato dopoguerra sembrava essere l’unico strumento di redenzione dal passato, già all’inizio degli anni ’50 il vento è cambiato, la società ha voglia di dimenticare e ricominciare a sognare le favole e i miracoli a Milano, come quello di Totò Golisano a cavallo di una scopa.
Meglio ancora, le avventure libertine del maresciallo Carotenuto (Pane, amore e fantasia, Luigi Comencini, 1953, che vede De Sica di fronte e non dietro alla macchina da presa) o lo spiantato Conte Max (Mario Camerini,1957), o, ancora, il pomposo sindaco de Il vigile (Luigi Zampa,1960, entrambi in coppia con Alberto Sordi). È, in altre parole, il De Sica farsesco, arguto, faceto a essere più amato dal pubblico e non solo, a tal punto saldatosi nell’immaginario collettivo da far affermare a Indro Montanelli intervistato da Michele Brambilla a proposito della trasposizione cinematografica del suo Il generale Della Rovere(1959), in cui l’attore/regista interpreta il ruolo del protagonista, Bertoni: «Ma il film tradì completamente la figura di Della Rovere. Rossellini sbagliò, intanto, l’interprete: Vittorio De Sica. Io lo capii subito e lo dissi: De Sica, finché faceva il mariuolo e il frequentatore di bordelli, andava benissimo. Ma non poteva fare il generale. Non era adatto»[2] .
Bisogna allora pensare a uno scarto, a uno iato tra il De Sica regista e quello attore? Piuttosto un fraintendimento, una difficoltà a conciliare aspetti apparentemente lontani, eclettismi di una personalità divisa tra impegno e disimpegno, tra la profondità della riflessione sulla realtà e la superficialità dei tavoli da gioco, grande passione del De Sica uomo, finemente portata anche sullo schermo nell’episodio I giocatori contenuto ne L’oro di Napoli (1954) di cui firmò anche la regia, perfetta meiosi tra temperamento artistico e temperamento “umano”, oltre che film sublime.
Umano, solo umano, infinitamente umano: questo è stato Vittorio De Sica, di cui tutti ricordano il sorriso, quella «faccia sorridente perché ama la vita» come Zavattini descrisse Umberto D. nel soggetto del film.
D. come De Sica, l’uomo che ha inventato l’Oscar per il miglior film straniero, l’uomo della realtà in tutte le sue forme. Ieri, oggi e domani.
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