Vittime e tiranni. La congiura dei Pazzi in Alfieri
Nel 1478, Iacopo de’ Pazzi con i nipoti Francesco e Guglielmo organizzò, con l’appoggio del papato e dal Regno di Napoli, un complotto atto ad assassinare Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Essi intendevano così privare i Medici del loro potere su Firenze, ma la congiura fallì: solo Giuliano venne ucciso, mentre Lorenzo rafforzò il potere mediceo e mosse guerra a papa Sisto iv, alleato della famiglia Pazzi. I Pazzi e i Medici erano imparentati, avendo Guglielmo sposato Bianca, sorella di Lorenzo e Giuliano, ma ciò non servì a placare l’acceso dissidio tra le due famiglie. In particolare, furono Iacopo e Francesco a ordire la congiura, insieme all’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati. Il momento cruciale sarebbe arrivato durante la solenne eucarestia della messa in Duomo, domenica 26 aprile 1478.
La congiura ai danni dei Medici è stata narrata e utilizzata nella letteratura, in primo luogo da Angelo Poliziano, grande amico di Lorenzo, che l’ha vissuta in prima persona; egli narra la vicenda nella Pactianae coniurationis commentarium. Poliziano rimane vicino a Lorenzo ferito quando, con un gruppo di altri fedeli amici, si barricano nella sagrestia della chiesa, mentre Giuliano già era stato colpito a morte:
«Io mi fo a scrivere brevemente la congiura de’ Pazzi; perocché questa sopra ogni altro memorando fatto a tempo mio intervenne, e poco stette che non rovinasse al tutto la repubblica fiorentina. Lo stato adunque della città era, che tutti i buoni si tenean per Lorenzo e Giuliano fratelli, e per tutti gli altri di casa Medici; sola la famiglia de’ Pazzi, ed alcuni de’ Salviati, a contrastare il presente reggimento in prima celatamente, di poi alla scoperta cominciarono.»
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Poliziano chiaramente dimostra come i Pazzi e pochi altri siano oppositori dei Medici, mentre i giusti parteggiano per i due fratelli; in un passo successivo l’autore descrive la famiglia Pazzi come «da’ nobili cittadini e dalla plebe era parimente di mal occhio veduta; poichè oltre all’esser tutti avarissimi, la loro intemperante e superba natura non si potea in nessuna guisa patire». Poliziano è testimone dei fatti, ma anche molto vicino alla famiglia Medici, e la sua descrizione non poteva essere differente.
Vediamo ora cosa afferma Machiavelli nelle Istorie fiorentine, opera del 1519, al capitolo ottavo:
«Non di meno Lorenzo, caldo di gioventù e di potenza, voleva ad ogni cosa pensare, e che ciascuno da lui ogni cosa ricognoscesse. Non potendo adunque i Pazzi, con tanta nobiltà e tante ricchezze, sopportare tante ingiurie, cominciorono a pensare come se ne avessero a vendicare.»
Il passo è ideale per congiungersi all’opera di Alfieri, pubblicata nel 1789. Machiavelli descrive Lorenzo come animoso e desideroso di porre il suo pensiero su tutto, che Alfieri riprende con stesse parole: «assai Lorenzo è caldo di giovinezza e di possanza» (atto iv, scena iii).
Il Lorenzo protagonista della tragedia alfieriana è, in effetti, lontano dal “magnifico” che spesso immaginiamo. Benché Alfieri riprenda le Istorie, vi sono alcune differenze rispetto all’evento reale, alcune dettate, probabilmente, da esigenze per strutturare la tragedia. Nel testo di Alfieri, i nomi dei Pazzi sono Guglielmo e Raimondo, rispettivamente padre e figlio, quest’ultimo sposato con Bianca; dunque cambiano non solo i nomi di Iacopo e Guglielmo, ma anche il loro rapporto di parentela, essendo zio e nipote nella realtà. Inoltre, Salviati, nonostante sia un religioso, prende parte attiva all’omicidio, mentre nella vicenda reale era intento a occupare il Palagio, e non era presente in chiesa. Come riporta Machiavelli, Giuliano doveva essere ucciso da Francesco Pazzi e Bernardo Bandini Baroncelli, mentre i carnefici di Lorenzo dovevano essere Antonio da Volterra e un sacerdote, Stefano. In Alfieri sono Raimondo e Salviati a dover uccidere i due fratelli.
La tragedia si compone di cinque atti. Dal primo atto, scena prima, Lorenzo e Giuliano appaiono come due tiranni; Raimondo si lamenta col padre dell’esercizio del loro potere, seppure affermi di amare Bianca:
«Schermo infame, e mal certo. A me non duole
Bianca, abbenché sia dei tiranni suora;
cara la tengo, e i figli ch’ella diemmi,
benché nipoti dei tiranni, ho cari.»
Ma anche i due fratelli sono molto diversi. Giuliano è più mite, spesso avverte Lorenzo del pericolo di una rivolta, ma Lorenzo non se ne preoccupa. Nel secondo atto, scena prima, i due fratelli dialogano, e limpidamente appare la differenza d’animo dei due. Giuliano invita alla prudenza, Lorenzo ribatte sicuro:
«E il sangue
di costoro vogl’io? La scure in Roma
Silla adoprò; ma qui, la verga è troppo;
a far tremarli, della voce io basto.»
Lorenzo non ha paura, anzi, non crede che si arriverà a una violenza tale quale quella di un attentato. Li lascia protestare, certo che fin quando parlano, non agiscono. E, infatti, Giuliano prontamente ribatte: «Cieca fiducia! Or non sai tu, ch’uom servo / temer si dee più che altro?». Entrambi però concordano sulla pericolosità di Raimondo. Giuliano avverte: «Feroce figlio di mal fido padre, / da temersi è Raimondo»; la risposta di Lorenzo è emblematica della sua indole:
«Ambo si denno
schernire, e a ciò mi appresto: è dolce anch’ella
cotal vendetta…»
Il Lorenzo alfieriano è un tiranno spietato, un principe assetato di potere. Si dimostra sprezzante, disprezza i Pazzi e attende solo il momento di umiliarli. Lorenzo ispira timore anche nei tirannicidi. Nel quarto atto, Raimondo e Salviati concordano il da farsi. Il “vil Giuliano”, così chiamato poiché spesso utilizza una cotta di maglia sotto la veste temendo un attentato, sarà colpito dallo stesso Raimondo, mentre a Salviati, entusiasta del compito, toccherà Lorenzo. Raimondo preferisce adempiere al compito più difficile, cioè uccidere subito Giuliano nonostante la protezione. Sulla scena vi sono Raimondo, Salviati e Guglielmo; il religioso mostra il pugnale con cui deve uccidere Lorenzo, benedetto dal papa in persona. Il fatto che Salviati sia un religioso ha poi una valenza simbolica fortissima: non solo il pugnale è stato benedetto da Sisto, non solo egli si appresta a compiere un omicidio, ma arma la sua destra per uccidere, la mano con cui i sacerdoti impartiscono la benedizione. E Guglielmo lo rimarca rivolgendosi a lui: «Sol dubitai, che in queste / vittime impure insanguinar tua destra / sacerdotal tu negheresti …»; Salviati prontamente risponde:
«Oh quanto
mal mi conosci! Ecco il mio stile; il vedi?
sacro è non men, che la mia man che il tratta:
mel diè il gran Sisto, e il benedisse pria.
La mano stessa il pastorale e il brando
strinse più volte: e, ad annullar tiranni
o popoli empi, ai sacerdoti santi
il gran Dio degli eserciti la destra
terribil sempre, e non fallevol mai,
armava ei stesso.»
Viene ritenuto perfettamente legittimo, se non santo, eliminare i due tiranni. Quando Guglielmo domanda ancora all’arcivescovo chi egli abbia scelto e questi gli risponde «Lorenzo», Guglielmo subito si inquieta: «Il più feroce?». Nel consiglio che Guglielmo dà allora a Salviati, si ha nuovamente una limpida immagine dell’efferatezza di Lorenzo:
«E tu bada, o Salviati, che se a vuoto
cade il colpo tuo primo, è tal Lorenzo,
da non lasciar, che tu il secondo vibri.»
Lorenzo, per la sua natura pronta al combattimento e per la sua indole sanguinaria, di certo non darà tempo a Salviati di tentare un secondo fendente. E infatti sarà fatale l’errore di lasciare a Salviati il compito di ucciderlo. Nell’ultimo atto, Raimondo colpisce a morte Giuliano, con tanta violenza da ferirsi egli stesso, ma non sa se anche l’arcivescovo ha avuto successo. Lorenzo entra in scena seguito dai soldati che conducono Guglielmo in catene, e annuncia che Salviati e gli altri congiurati sono morti. Lorenzo vuole che Guglielmo assista alla morte del figlio, ma Raimondo si pugnala e prima di morire lancia l’arma al padre perché faccia lo stesso. Lorenzo gli prende il pugnale e ordina che Guglielmo sia condotto al supplizio. Le ultime battute della tragedia, Alfieri le lascia proprio a Lorenzo, nonostante i protagonisti della sua opera siano i Pazzi:
«si stacchi a forza la dolente donna
dal collo indegno. Alleviar suo duolo,
può solo il tempo. E avverar sol può il tempo
me non tiranno, e traditor costoro.»
La donna che Lorenzo non nomina è Bianca; la spietatezza di Lorenzo emerge nel far staccare a forza la sorella che si è gettata a terra al collo del marito morto. Infine, l’ultima frase è sibillina, ambigua. Lorenzo parla come se intendesse dire che, grazie alla congiura, la storia lo riconoscerà come principe giusto, come una vittima scampata, non per ciò che realmente è, cioè un tiranno.
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Alfieri ci consegna allora una vittoria dell’ipocrisia, che renderà l’immagine di Lorenzo come il lungimirante principe raccontato dagli storici, e i Pazzi come traditori. Le ultime parole di Lorenzo suonano come un’ironica consapevolezza che l’esito della vicenda consegnerà alla storia la versione dei vincitori, e questa sarà inevitabilmente quella corretta.
***
Riferimenti bibliografici
Alfieri V., La congiura de’ Pazzi. Testo definitivo e redazioni inedite, a cura di Lovanio Rossi, Asti, Casa d’Alfieri, 1968.
Machiavelli N., Istorie fiorentine, in Id., Tutte le opere, a cura di Mario Martelli, Firenze, Sansoni, 1971.
Poliziano A., Della congiura de’ Pazzi dell’anno 1478. Comentario di Angelo Poliziano, voltato dal latino in toscano da Alessandro de Mandato, Napoli, Stamperia del Vaglio, 1849.
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