“Vita Nuova” di Dante Alighieri, un ingegno che vede come sognando
«Per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere» (Conv. II, xii, 4). Così Dante parla della sua opera giovanile nel Convivio. La Vita Nuova è un prosimetro composto due o tre anni dopo la morte di Beatrice, avvenuta la sera dell’8 giugno 1290. L’opera conta 31 componimenti in versi di diversa forma metrica, trattandosi di 23 sonetti, 2 sonetti rinterzati, 3 canzoni, 1 stanza di canzone, 1 una doppia stanza di canzone e 1 ballata. Le poesie, selezionate tra quelle composte tra il 1283 e il 1293-95, sono collegate tra loro da un commento in prosa, per un totale di 42 capitoli nelle edizioni moderne.
Il titolo del libello viene presentato immediatamente all’inizio del capitolo I, dove Dante scrive che «In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la qual dice: Incipit vita nova». La memoria conserva l’esperienza, e nella memoria l’esperienza acquisisce consapevolezza di se stessa, dalla memoria riceve una guida; nella simbologia medievale, il libro della memoria riconduce al libro dell’universo, dove il visibile esprime l’invisibile, dove risiede l’armonia dell’essere, tema, questo, sia classico che cristiano. Gli eventi tramutati in parole sono portatori di un messaggio spirituale. Non solo le liriche, ma anche la prosa assume i connotati di una parola-rivelazione, sia nei dialoghi che il Poeta ha con Amore, dove l’uso del latino contribuisce a dare tono sacro e solenne, sia nelle lodi a Beatrice e nei discorsi con le donne gentili, con il frequente utilizzo di termini biblici che incidono ancor più sul carattere rivelativo, e fanno di questi episodi tappe del progressivo viaggio verso la completa illuminazione interiore.
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Dunque, è sconsigliabile soffermarsi sul titolo semplicemente intendendolo come vita nuova/giovinezza; molti illustri interpreti hanno riscontrato un rimando ai Salmi, a San Paolo, ai Vittorini, dove si parla di una renovatio spirituale umana attraverso l’illuminazione della grazia, leggendo perciò “vita nuova” come canticum novum. In effetti, è questo il significato nelle tradizioni patristica e scolastica, dove “vita nuova” non denota solo un rinnovamento post conversione, ma una nuova vita donata da Cristo. Dante vuole narrare episodi autobiografici che comportano un profondo rinnovamento nella sua vita umana e poetica, acquisito grazie alla scoperta di un amore elevato e nobile, l’agàpe che va oltre la morte della donna amata, che è gioia interiore che mai diminuisce, e che mantiene un costante riferimento alla sfera religiosa in cui avviene il particolare innamoramento del Poeta, sospendendo il racconto del libello tra dimensione mistica e profana.
L’amore che era stilnovisticamente nel cor gentile passa alla mente, e si tramuta in intelletto d’amore. I momenti spirituali rilevanti sono marcati dalle canzoni, confermando così la nobilitazione della canzone fra le forme metriche, e attorno a esse sono disposti gli altri componimenti. La prima canzone, Donne ch’avete, inaugura la materia nuova, la seconda, Donna pietosa, presenta l’evento determinante della storia ed è in posizione perfettamente centrale all’interno della serie delle 31 poesie, mentre la terza, Li occhi dolenti, segna l’inizio dei componimenti posteriori alla morte di Beatrice. Si può osservare così uno schema speculare già illustrato dalla critica ottocentesca: 10, I, 4, II, 4, III, 10, dove i numeri romani indicano le canzoni, i numeri arabi le altre forme metriche.
Si è proposto un ulteriore schema legato alla simbologia del nove, dove il primo sonetto viene considerato prologo e l’ultimo epilogo, 1, 9, 1, 9, 1, 9, 1. Il numero 9 è centrale nell’opera: il primo incontro fra Dante e Beatrice avviene quando sono fanciulli e hanno 9 anni, il secondo incontro avviene 9 anni dopo, e Dante descrive la donna amata non più vestita di rosso sanguigno, ma di un colore bianchissimo. Il 9, ultimo dei caratteri numerici, diventa simbolo di inizio e fine, simbolo di rinascita, in unione con il valore allegorico dei colori: dapprima il rosso della passione, in seguito il candore della rinascita spirituale.
Nell’opera, Dante traccia la linea di un’evoluzione, spirituale e artistica, dopo la profonda crisi sentimentale che lo ha attanagliato; non è più la donna cortese a essere lodata, ma la donna gentile, intesa come nobile, e Beatrice ne diviene il simbolo. La donna gentile, colei che possiede l’intelletto d’amore, ha il potere di rimarginare la frattura che si crea tra i moti trasgressivi dell’amore, con la sua forza dirompente, e le leggi divine. Nel racconto, dopo il secondo incontro con Beatrice, nel capitolo III,3-5 Dante si rifugia nella sua stanza e, dopo essersi addormentato, ha un angosciante sogno premonitore:
«mi parea vedere ne la mia camera una nebula di colore di fuoco, dentro a la quale i’ discernea una figura d’un signore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali ’ntendea queste: “Ego dominus tuus”. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormir nuda, salvo che ’nvolta mi parea in un drappo sanguigno leggermente, la qual io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E nell’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: “Vide cor tuum”.»
La visione è densa di passionalità. Beatrice è nuda e avvolta in un lenzuolo che ricorda il colore della veste del loro primo incontro, mentre il cuore di Dante tenuto in mano da Amore è ardente. La costante ripetizione del verbo “parere” accentua la dimensione onirica. Amore si presenta come un signore spaventoso ma lieto, e, come detto, la solennità del suo dire è enfatizzata dall’uso del latino, e la prima frase che pronuncia è di chiara derivazione biblica: “Io sono il Signore tuo Dio”, inizio del primo comandamento nel libro dell’Esodo, 20 2.
Anche per il “salutare” salvifico di cui si parla il rimando è biblico; nel Salmo 50, 14, Davide chiede perdono dopo il peccato consumato con Betsabea, e il verso latino recita “Redde mihi laetitiam salutaris tui”, “Rendimi la gioia di essere salvato”. Nel libello si riconferma poi che il compito salvifico di Beatrice deriva dal divino stesso: il Poeta lo descrive nella celebre lirica Tanto gentile e tanto onesta pare, in cui la sua donna “par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”. Dante desidera modellare il proprio libro riferendosi al Libro per eccellenza, far si che il messaggio che intende trasmettere sia forte dei valori incorruttibili del testo sacro, in modo che l’amore terreno, per quanto fragile, si plasmi su quello divino. L’intelligenza d’amore comporta l’edificante illuminazione spirituale, e la svolta giunge al capitolo xvii, dove Dante afferma di “ripigliare matera nuova e più nobile che la passata”.
Il Poeta si rivolge dapprima alle donne che posseggono intelletto d’amore, e qui proclama per la prima volta il suo intento di comporre un’ode di lode verso l’amore disinteressato, quell’agàpe che Beatrice incarna. Lodare lei significa riconoscere la grazia che da lei giunge, e così facendo avviene il rinnovamento interiore che dà voce al canto nuovo. Eros e caritas, amore per una donna e amore in senso divino, si fondono come avviene nel modello salomonico del Cantico dei Cantici: nel testo biblico non viene meno l’amore sensuale, interpretato però in chiave allegorica o mariologica; che sia letto come il desiderio di un’anima di ricongiungersi a Dio, o come il desiderio della chiesa che si unisce a Cristo, esso conserva un linguaggio prettamente erotico, che non viene respinto da alcuno dei grandi e numerosi esegeti tardo antichi e medievali che sempre hanno dedicato opere e commenti a questo splendido testo poetico.
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E dopo la morte di Beatrice, divenuta “spirital bellezza grande” (xxxiii 8 v. 22), la lode prosegue, e con essa l’amore, con il quale Dante supera il momento di perdizione; dopo il lutto per Beatrice, infatti, il Poeta sembra innamorarsi di una “donna pietosa e gentile” che partecipa al suo dolore e gli rimembra con vaghezza la donna amata. Ma tutto ciò non è sufficiente, Dante non può tornare nel passato, cioè a un amore che non sia beatificante. L’episodio di questa donna pietosa si consuma velocemente, e alla fine del libro Dante rinvigorisce la sua fedeltà a Beatrice: la Vita Nuova si chiude con una dichiarazione e un intento precisi: “io spero di dire di lei quello che mai non fue detto” (xlii 2).
Forse Dante intendeva un poema, forse un altro libro da dedicare a Beatrice, anche se mai si è potuto appurare che tale opera sia stata effettivamente cominciata; ciò che è certo, è che l’idea non ha mai abbandonato il Poeta, che fa riecheggiare, in seguito, la Vita Nuova nel suo capolavoro: egli incontra nuovamente Beatrice, che lo rimprovera per il suo momento di infedeltà, sulla vetta del Purgatorio, nel paradiso terrestre, divenuta ora veramente guida, figura christi e sapienza divina.
Riferimenti bibliografici
Alighieri D., Vita Nuova, in Id., Vita Nuova • Rime, a cura di Donato Pirovano e Marco Grimaldi, introduzione di Enrico Malato, Roma, Salerno Editrice, 2015.
Pazzaglia M., Vita Nuova, in Enciclopedia Dantesca, 1970.
Zara A.R., La Vita Nova e il Convivio: la scoperta dell’intelletto d’amore, in «Sotto il velame», vii.
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