Violenza sulle donne: tutta colpa degli stereotipi?
La violenza sulle donne, e il femminicidio quale estrema conseguenza, è, a ragion veduta, uno dei temi più discussi degli ultimi mesi. Sicuramente, questo accade con un certo ritardo in Italia, dove spesso ci si concentra sulla ricostruzione di casi di cronaca (Amore Criminale, Rai3) o su reportage documentaristici (Femminicidio, puntata speciale di Presa Diretta, andata in onda domenica 24/02/2013). L’indagine sulle cause sembra restare sempre e comunque estranea, almeno al mondo dei media.
All’interno di questo scenario, s’inserisce il Premio Immagini Amiche. Si chiama così l’iniziativa promossa dall’UDI (Unione Donne in Italia) e dall’Ufficio Italiano del Parlamento Europeo, con l’intento di premiare quanti, nel mondo dei media e della pubblicità, si sono spesi per proporre un’immagine femminile lontana dagli stereotipi che di solito vogliono la donna formosa, plastificata e ubbidiente. Il Premio, che si ispira alla Risoluzione del Parlamento Europeo Impatto del marketing e della pubblicità sulla parità tra donne e uomini (2008/2038(INI)) è giunto alla terza edizione e, quest’anno, i vincitori saranno decretati entro il 1 marzo 2013 sulla base dei voti ricevuti. La lista dei candidati è abbastanza varia, suddivisa in 5 categorie: Programmi televisivi, Pubblicità televisiva, Pubblicità stampata, Affissioni, Web. Tra i vincitori dell’anno scorso, ricordiamo Milena Gabanelli e Geppi Cucciari per la televisione; Kinder cereali per lo spot con Valentina Vezzali; Amref per la pubblicità sulla stampa e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni per la pubblicità sul web.
L’idea di fondo è quella di «valorizzare la comunicazione che veicola messaggi positivi, promuovendo una creatività innovativa in grado di proiettare immagini “amiche” delle donne», quasi a voler individuare la causa delle disuguaglianze di genere nella promozione degli stereotipi femminili propria della pubblicità.
Ci chiediamo, invece: e se i media, e la pubblicità che l’alimenta, non facessero altro che cogliere qualcosa di atavico, che risiede altrove e che li precede? Forse, il problema, prima ancora che di ordine comunicativo, è una questione sociologica. Ristabilire quest’ordine di priorità non potrebbe essere l’inizio di un percorso maggiormente mirato?
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