Violenza contro le donne – Quando il nemico è in casa
Interrogarsi sulla violenza contro le donne significa anche scontrarsi con le ragioni che la determinano; ragioni che, come mostra Silvia Bonino nel suo Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia (edito da Laterza), derivano anche da una predisposizione che la cultura e le sollecitazioni sociali possono contribuire ad acuire, fino a rendere palese la violenza.
Un insieme di fattori biologici e culturali in cui sono in campo la «disposizione maschile alla sopraffazione», «la [femminile] passività verso la dominanza maschile» all’interno di una società in cui la relazioni di coppia si radicano, con il risultato che la donna si ritrova a vivere con un vero e proprio nemico in casa, cioè nel luogo in cui più ci si dovrebbe sentire al sicuro e protetti.
Di tutto questo abbiamo discusso con Silvia Bonino, professore emerito di Psicologia dello sviluppo e Psicologia dell'educazione all’università di Torino.
Si celebra oggi la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne. Quanto può essere utile questo tipo di giornate rispetto al concreto obiettivo che si prefiggono?
Credo che questo tipo di giornate sia utile per avere un momento di riflessione pacata, al di fuori dell’urgenza e dell’enfasi della cronaca, su fatti che coinvolgono ciascuno di noi nella vita quotidiana. Nel gran flusso di informazioni che ci arrivano ogni giorno, fermarsi insieme per un momento di riflessione non episodica sulla violenza, sulle sue cause ed effetti, su ciò che si fa o non si fa per ridurla, è indispensabile e preliminare a qualsiasi attività di prevenzione e intervento. Questo tema chiama in causa ciascuno di noi, uomo o donna, nel concreto delle sue relazioni affettive quotidiane, e una giornata specificamente dedicata può essere utile per una pausa di riflessione. L’esercizio dell’autocoscienza è indispensabile per bloccare emozioni e giudizi automatici.
Secondo alcune ipotesi, l’insorgere della violenza in una coppia deriverebbe dal senso di minaccia che l’uomo prova dinanzi a una donna più libera. Fino a che punto ritiene verosimile questa posizione?
Non la ritengo verosimile. Infatti quando le donne sono meno libere la violenza non è affatto minore. Anche se per il passato non abbiamo a disposizione dati precisi, perché la violenza era occultata e negata ancor più di oggi, sappiamo da molte testimonianze che essa era diffusa. Inoltre era ben legittimata a livello giuridico, all’interno di una concezione di dominanza-sottomissione del rapporto tra uomini e donne: ne sono esempio le leggi sul delitto d’onore e sulla tutela maschile delle donne (mogli, figlie, sorelle) in famiglia. Quest’interpretazione è l’ennesimo esempio di colpevolizzazione della vittima e di giustificazione della dominanza e della violenza maschile. È vero che alcuni uomini possono vivere sentimenti di insicurezza, ma la violenza non è una risposta obbligata né, soprattutto, utile. È una risposta primitiva che fa solo danni, perché non adatta a risolvere l’insicurezza, che va superata in altri modi. Se solo si esce da una concezione polarizzata tra dominanza e sottomissione, la maggiore libertà delle donne costituisce positivamente per l’uomo un arricchimento, in una relazione sessuale e affettiva più stimolante e paritaria.
Amori molesti si occupa della violenza all’interno delle relazioni uomo-donna. Esistono delle specifiche dinamiche di coppia che rendono possibile l’instaurarsi della violenza? Oppure, quest’ultima accade a prescindere?
Pur nascendo nella relazione, l’aggressione è la risposta di uno dei membri della coppia (più raramente di entrambi) a difficoltà, tensioni, frustrazioni, conflitti. Queste situazioni possono presentarsi con maggiore frequenza e intensità in alcune coppie o momenti della relazione. Ma la violenza non è la reazione necessaria e obbligata a esse, anche se purtroppo la nostra cultura ci ha abituati a pensare così. Essa è solo una reazione primitiva, radicata com’è nel nostro passato filogenetico e quindi non adattiva: non serve a risolvere i conflitti e non fa che peggiorare le relazioni nella coppia. Spesso è impulsiva e connessa a una incapacità di riconoscere, controllare ed esprimere adeguatamente le proprie emozioni negative. In questi casi è importante costruire le competenze sociali ed emotive che rendono capaci di affrontare i conflitti e le tensioni in modo positivo, attraverso la parola, la promozione degli affetti e la ricerca di soluzioni davvero utili. In altri casi la violenza è invece il prodotto di una concezione culturale di supremazia maschile sulla donna, che va combattuta e superata.
Il sottotitolo del suo saggio recita Natura e cultura nella violenza di coppia. Qual è il ruolo di questi due fattori?
La violenza, come tutti i comportamenti umani, è frutto della complessa interazione tra fattori biologici e culturali. I fattori biologici forniscono predisposizioni al comportamento, e non necessità, che la cultura può legittimare, favorire o contrastare. Anzi tutto la cultura può giustificare a livello teorico (con le ideologie, le religioni, le leggi, ecc.) le parti filogeneticamente più primitive del nostro cervello, in cui la sessualità è polarizzata tra supremazia maschile e sottomissione femminile. Anche là dove in teoria afferma la parità, la cultura può continuare a praticare di fatto la sopraffazione e offrire situazioni che attivamente nutrono il cervello rettiliano primitivo a danno dello sviluppo della capacità specificamente umana di stabilire relazioni paritarie di amore sessuale. La nostra cultura deve dunque decidere se vuole contrastare oppure nutrire le parti più evolute del nostro cervello emotivo e soprattutto della neocorteccia, che ci predispongono alla socialità positiva, cioè a legami, affetti, empatia, cooperazione, altruismo.
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Ponendosi in una prospettiva di eredità filogenetica, lei parla di una «disposizione maschile alla sopraffazione». Quali possono essere le implicazioni di tale analisi per una migliore connotazione del problema?
Dobbiamo prendere consapevolezza che esiste anche nella specie umana, come frutto dell’eredità filogenetica presente nel cervello rettiliano, la contiguità tra sessualità maschile e dominanza. Prenderne atto non significa legittimare la violenza, perché è solo nell’ordine naturale dei rettili, ma non più degli esseri umani, che la sessualità maschile è legata alla dominanza e all’aggressione. In uomini e donne la sessualità si apparenta ormai ai sentimenti, agli affetti, a una relazione paritaria, allo stesso tempo amorosa e sessuale, con una persona ben precisa. Solo questo tipo di relazione è adattivo sia per la specie che per i singoli individui. Inoltre va ribadito che le disposizioni biologiche non implicano necessità a comportarsi in un certo modo, ma solo tendenze che la cultura e l’individuo possono rafforzare, coltivare e nutrire oppure contrastare. In concreto, per ridurre la violenza occorre smettere di coltivare le tendenze aggressive arcaiche, a favore della socialità positiva (affetti, legami, empatia, cooperazione, altruismo, ecc. ), specifica degli esseri umani.
Analizzando la violenza di coppia dal punto di vista della donna, lei scrive che «La passività verso la dominanza maschile ha anch’essa la sua radice nell’antica eredità filogenetica rettiliana». Quanto incidono, però, i condizionamenti sociali e culturali nel rafforzamento di questa disposizione?
Come appena detto, la cultura può coltivare gli aspetti più primitivi della nostra sessualità a danno di quelli più evoluti, gli unici in grado di soddisfare le esigenze affettive e sessuali degli esseri umani. Quindi la cultura ha certamente un peso determinante nel rafforzare l’arcaica disposizione alla sottomissione e alla passività, mediata dalla paura. L’attivo rafforzamento culturale di questa disposizione è del tutto funzionale al mantenimento della dominanza maschile; questa dà ad alcuni uomini vantaggi immediati, ma non dà benessere né agli altri individui – uomini e donne – né alla società. Sia uomini che donne devono prendere consapevolezza di ciò che contrasta le relazioni paritarie, per poter fare insieme un cammino comune che le costruisca. Molti messaggi culturali che favoriscono la passività femminile, come la sessualizzazione, sono subdoli e accattivanti, e vanno smascherati nel loro significato di subordinazione.
Senso di colpa e vergogna sono i sentimenti che spesso dilaniano la donna vittima di violenza. Quale sforzo è richiesto alla donna per liberarsene e diventare pienamente consapevole della responsabilità del «nemico in casa»?
Lo sforzo richiesto riguarda anzi tutto la presa di coscienza dei propri sentimenti di vergogna e colpa; ricordo che la vergogna si riferisce al giudizio sociale e la colpa alla violazione di un codice morale interiorizzato. Senza questa consapevolezza preliminare non ci si può rendere conto delle responsabilità dell’uomo. Come per ogni emozione, c’è la tendenza all’attivazione automatica di circuiti emotivi che si sono costruiti in età precoce e si sono poi rafforzati nel tempo. Diventare consapevoli di queste reazioni automatiche è il primo passo per bloccarle e impedire che perdurino. Come in ogni crescita individuale, l’automaticità della spiegazione (“mi picchia perché ho sbagliato”), e della conseguente risposta emotiva, va sostituita dalla capacità di pensare in modo cosciente a ciò che sta succedendo intorno a sé e dentro di sé. Questa autocoscienza permette di bloccare l’automatismo, in un percorso che non può essere solitario ma richiede l’aiuto di altre persone e un adeguato sostegno sociale.
Nel suo saggio, pone al centro della discussione anche i temi della sessualizzazione della donna e della pornografia. Quel è la loro reale portata rispetto alla violenza contro le donne?
Sono situazioni che “stuzzicano” il cervello rettiliano, a danno della costruzione di legami paritari e a favore di relazioni di dominanza-sottomissione. Gli studi su questi argomenti sono ormai numerosi e i risultati sono concordanti nell’imputare a sessualizzazione e pornografia un ruolo significativo nell’aumento del comportamento violento. Entrambe infatti ignorano la dimensione affettiva, favorendo la scissione tra sesso e affetti, e la complessità e specificità di ogni singola donna. Quest’ultima è considerata unicamente nelle sue caratteristiche sessuali, fino a diventare un oggetto sessuale spersonalizzato: diventa così impossibile ogni condivisione empatica. Sono soprattutto alcuni uomini a risultare maggiormente suscettibili alla pornografia, nel senso di un aumento della violenza: quelli già di per sé orientati al sesso impersonale o che hanno un atteggiamento di mascolinità ostile contro le donne.
L’attuale dibattito si sofferma molto sull’educazione sessuale e sull’importanza della sua introduzione anche nelle scuole elementari. La ritiene un utile strumento di prevenzione?
Date le caratteristiche degli esseri umani, capaci di amore sessuale e di relazioni monogame e durature, l’educazione sessuale è necessariamente anche sentimentale. Nella specie umana la sessualità è ormai connaturata ai sentimenti, e quindi un’educazione che ignorasse l’aspetto affettivo sarebbe non pienamente umana. L’educazione sessuale sentimentale è in primo luogo compito della famiglia fin dall’infanzia, ma anche la scuola non si può sottrarre a questo dovere, sia in modo diretto che indiretto, a seconda dell’età. Soprattutto dalla preadolescenza il tema va affrontato direttamente, e la scuola è il luogo privilegiato per farlo. Non solo perché tutti i ragazzi e le ragazze la frequentano, ma anche perché lo sviluppo puberale comporta una maggiore autonomia dalla famiglia. I coetanei diventano quindi il riferimento privilegiato, con effetti di conformismo che possono essere molto negativi per la trasmissione di modelli di comportamento prevaricanti.
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