Viaggi americani – Tra Ezra Pound e James Joyce
Il nostro viaggio di oggi oltrepassa duplicemente le coordinate che i profili dei Grandi di cui abbiamo parlato fin ora hanno tracciato: da un lato perché riconosceremo un poeta americano, che però in America non ha vissuto poi così tanto, e dall’altro uno dei più famosi scrittori di sempre, che ha trovato anche nell’influenza della grande letteratura americana la chiave di volta per le sue storie. Così, da una parte Ezra Pound, dall’altra James Joyce; ovvero colui che (assieme a Baudelaire) ha inventato la poesia moderna, e colui che ne ha seguito la lezione nella prosa.
La recente pubblicazione – Lettere a James Joyce – de il Saggiatore per la traduzione di Antonio Bibbò della corrispondenza dei due scrittori dal 1913 al 1945, ci offre l’occasione per raccontare una storia forse non troppo conosciuta: come si sono incontrati Joyce e Pound? La risposta è nel nome di un’altra grande figura della letteratura mondiale, nonché Premio Nobel nel 1923: W. B. Yeats. Invero, fu il poeta irlandese, già in contatto con Pound nel 1923, a ricordarsi di un giovane scrittore irlandese dal grande potenziale, e a indurre lo stesso Pound a scrivergli. Da allora si scrissero (quasi ininterrottamente) per trent’anni; e, parallelamente, come spesso accade, nacque un’intima amicizia fra i due, che li avrebbe accompagnati dopo la morte del romanziere irlandese. Ma anche se il destino avesse deciso il contrario, e fosse stato Pound a lasciarci per primo, non sarebbe cambiato nulla: Joyce – come ha sempre detto – deve moltissimo al poeta americano. Fu quest’ultimo a farlo conoscerlo, a scrivere i primi saggi sulle sue opere, a leggere per la prima volta e ad aiutarlo nella stesura sia di Un ritratto dell’artista da giovane che di Gente di Dublino. Anche da questo, poi, scaturirà l’incredibile mole critica dell’opera joyciana di fine Novecento.
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La lezione di Pound, che arrivò fino ai Cantos del 1925, era ambiziosissima: miscelare l’europeismo accentato di Dante con «la vena indigena americana di Whitman»(Lettere a James Joyce, pag. 25), guardando a un’epica dell’Occidente tutto. In questo senso, la missione dell’autore americano si rispecchiava in una promozione intellettuale del nuovo rinascimento, fondendo l’anima medievale con quella, appunto, rinascimentale, «dall’impressionismo di Ford Madox» al «mot justedi Flaubert»(Ibidem). È grazie a questa, per certi versi folle, estetica letteraria, che Joyce si immerse nella creazione di una prosa moderna fondata su un animo plurale, sulla nuova coscienza che ben rappresenta la poesia di Pound, e, anche, mantenne un occhio sempre attento nei confronti della “sua” letteratura, dal momento in cui abbondò la terra irlandese.
Sin dalle prime lettere della loro lunga corrispondenza, i commenti agli scritti di Joyce erano entusiasti, perché, come scrive Forrest Read nell’Introduzione alle Lettere,«Pound si rese subito conto che era l’autore che aveva cercato e aveva provato a diventare». E l’autore irlandese ne prese presto coscienza, inglobando nel suo innovativo realismo quegli elementi d’avanguardia così cari a Pound. Ecco, per esempio, come Gente di Dublino, formalizzi l’istituzione della città nella letteratura inglese dell’epoca.
I rapporti tra i due giganti del Novecento ebbero però un punto di ritorno quando Joyce iniziò la stesura di quello che sarebbe poi mandato alle stampe con il titolo di Finnegans Wake. Sebbene entrambi, fin dal periodo giovanile, avevano parallelamente deciso di intendere e assecondare la rispettiva vocazione classicista rideclinandola nella poesia/prosa moderna, l’ultimo lavoro di Joyce dimostrò a Pound che il suo amico aveva imboccato una strada senza via d’uscita. Ma, forse, era proprio quest’ultimo a essere in uno stato di confusione: la sua poesia, le sue idee l’avevano spinto in un campo che per Joyce era impraticabile. Perché se da un lato è innegabile che non avremmo mai goduto della dirompenza dell’Ulisse senza l’attenta insistenza del poeta americano, è anche vero che l’opera di Joyce rappresenta uno dei romanzi più contro l’antisemitismo che la letteratura abbia mai conosciuto. Ma, a dimostrazione dello stato confusionale di Pound, va ribadito come Ulisse sia tanto opera di Joyce, quanto dell’influenza di Pound. Le sue parole nella quarta di copertina dell’edizione Einaudi di Celati sono eloquenti a riguardo: «Bloom è Shakespeare, Ulisse, l’Ebreo errante, il lettore del Daily Mail, l’uomo che crede a ciò che legge nei giornali e il capro espiatorio».
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Il legame fra Pound e Joyce è uno dei più forti nella storia della letteratura, e ha dato vita a una delle stagioni più prolifiche ed entusiasmanti della cultura di ogni tempo, sempre e solo focalizzandosi, al netto di ogni teoria critica, su un elemento che è realmente l’indizio ossessivo della letteratura stessa: il tempo. D’altronde, come scrive Nabokov nelle sue Lezione di letteratura, l’Ulisse parla di tre cose: del tempo passato irrimediabilmente, del presente tragico assurdo e del futuro patetico. Chissà se Pound sarebbe stato d’accordo.
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