Viaggi americani – Raymond Carver e il suo mondo così perfetto perché imperfetto
«Me la faccio con questa pollastrella vedete è carina
mi chiama Bukowski
Bukowski dice con questa vocina
e io dico che c’è
Ma voi non sapete che cos’è l’amore».
Inizia così uno dei testi di Orientarsi con le stelle, il volume edito da minimum faxche raccoglie tutte le poesie di Raymond Clevie Carver Jr., e che ci permette di comprendere la ratio del “volo letterario" da Charles Bukowski al viaggio nella letteratura del nativo di Clatskanie, una cittadina nella contea di Columbia in Oregon. Ma cos’è che lega i due scrittori americani? Un’evidente propensione, per certi versi dickensiana, verso l’ordinario insolito, che va poi a comporre il sostrato esistenziale del quotidiano, ove finanche l’elemento amoroso non è esacerbato a scapito del “resto”, e per questo «voi non sapete cos’è l’amore». Se però quella di Bukowski è una letteratura che è anche e soprattutto esigenza narrativa, per Carver l’essere scrittore è caratura intrinseca al suo modo di esistere, già da adolescente:
«Non conoscevamo molti che avessero il coraggio di dire voglio fare lo scrittore. Magari dicevano voglio fare l’insegnante e spero di trovare il tempo per scrivere. Sentivano di doversi mostrare realisti, ma Ray diceva voglio fare lo scrittore» (Carol Sklenick, Raymond Carver. Una vita da scrittore, Nutrimenti, 2010).
Sin dal suo esordio – nel 1976 con i ventidue racconti di Will You Please Be Quiet, Please?(Vuoi star zitta per favore?, Einaudi, 2009), poi candidato al National Book Award – Carver divenne il capostipite di quella generazione di autori formatasi nei corsi di scrittura creativa delle università americane, a cui un critico francese appose l’etichetta di scuola minimalista. Ma in realtà, come già scriveva Fernanda Pivano sul «Corriere della sera» nel 1988:
«Carver non è un minimalista: caso mai il suo nome va riallacciato alla metafisica di Kafka e di Beckett e all’essenzialità stilistica di Hemingway, oltre che a quella del suo onnipresente Cechov».
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Questo chiarisce altresì perché Carver siano uno degli scrittori più studiati in ottica comparatistica, proprio per la sua capacità di fondere in un’unica realizzazione, forse più di ogni altro autore americano, alcune delle voci iconiche della scena mondiale. Basti pensare, come detto, all’atmosfera di ineluttabilità e incomunicabilità tipiche dell’autore del Processo, o alla verità insaziabile del drammaturgo russo (su cui Carver scrisse una biografia) e dei suoi racconti –fra tutti il celebre La signora col cagnolino –, oancora, la compenetrazione di accenti così diversi fra loro come quelli di Conrad, Flaubert, Joyce, Dostoevskij, Tolstoj. Ecco, quindi, come Carver abbia istruito la sua ars scribendi con la grande letteratura europea, e come, anche su questa, abbia plasmato una stilistica inequivocabile, che l’ha reso uno scrittore ancor oggi imprescindibile per comprendere sia l’evoluzione della cultura a stelle e strisce degli anni ’Settanta (e non solo), sia, sul versante letterario, per analizzare come abbia ampliato e ribaltato gli stilemi della short story.
Perché se Salinger ha rivoluzionato l’America con un romanzo soltanto, Carver è riuscito in un’impresa altrettanto impervia, ossia quella di spostare l’oggetto della letteratura. Lo dice bene Diego de Silvia nella prefazione a What We Talk About When We Talk About Love (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Einaudi, 2015):
«[Carver] non solo ti autorizza a raccontare ciò che non credevi avesse abbastanza dignità per stare nella forma impegnativa della frase, mati dà il coraggio di cercare dei modi che ti permettano di raccontare ciò che per te è importante».
Invero, nella letteratura (americana ma non solo) c’è un prima e un dopo Carver, poiché il «Cechov d’oltreoceano» – come venne ribattezzato dal «Guardian»–, con la sua «prosa laconica e scabra, priva di lirismi e di eloquenza, parsimoniosa di immagini e di commenti, senza concessioni a metafore, a esuberanze e sentimentalismi» (F. Pivano, Viaggio americano, Bompiani, 1997), ha seguito la teoria dell’iceberg hemingwayana, impegnando le sue storie sul non-detto, sulla minaccia kafkiana che preme sul quotidiano e impedisce, in parte, la percezione e la comprensione di ciò che è accaduto. E questo anima i racconti di Carver: i personaggi affrontano qualcosa che è già successo, alimentando la poetica del trascurabile per raccontare «sradicamento, alienazione, inadeguatezza al proprio ruolo famigliare e sociale»; gli stessi temi che isola Paolo Cognetti nella prefazione a Vuoi star zitta per favore?, che sono finanche ripresi in Cathedral (Cattedrale, Einaudi, 2014), la sua terza e forse più importante raccolta uscita nel 1983. Dove indirizza la già evocata lezione di Hemingway e la radicalizza; se il nativo di Oak Park aveva iniziato solamente a lambire gli istanti decisivi della vita, ricalibrando l’oggetto letterario, come nei famosissimi Le nevi del Kilimangiaro e Colline come elefanti bianchi, la volontà carveriana è quella di conferire nuova dignità a tutti gli altri istanti della vita. È lì l’humus su cui edificare una “nuova” letteratura, dalla classe operaia; è così che i racconti di Carver si trovano sospesi, perché qualcosa che è già accaduto non è più interessante: sulla pagina arriva solo l’eco di un’esplosione lontana; le briciole del quotidiano che coincidono con il concetto stesso di letteratura. Come accade per i personaggi di Cattedrale o nella perfezione strutturale di Penne (un vero e proprio miracolo narrativo).
Parallelamente alla svolta che Carver ha impresso indelebile nella storia della letteratura, lo scrittore americano ebbe la forza e il coraggio di abbondare un amico caro a moltissimi suoi illustri colleghi coevi e non: «alla fine cambiò vita, diventando una delle rare eccezioni in un lungo elenco di scrittori americani alcolizzati inguaribili» (Carol Sklenick, Raymond Carver. Una vita da scrittore, Nutrimenti, 2010).
Ecco, pertanto, come ci ricolleghiamo alla scelta di istruire un filo rosso che accompagna da Bukowski a Carver: se per il primo la letteratura è stato (anche) il luogo dove ricercare disperatamente la salvezza dall’alcol e dalla depressione, per il secondo è stata la casa che l’ha accudito come un figlio, salvandolo. In moltissime interviste lo stesso Carver ricorda la sua vita come divisa in due, un prima e un dopo la pubblicazione di Vuoi star zitta per favore?, prima e dopo il matrimonio con la sua prima moglie Maryann:
«Davvero non mi sembra che sia successo qualcosa nella mia vita prima di compiere vent’annie sposarmi e avere dei figli. È allora che le cose sono cominciate a succedere».
Forse aveva paura di diventare come il padre – altro legame con Bukowski –, o forse per il futuro che riuscì a intravedere nel 1977 quando incontrò la seconda donna della sua vita Tess Gallagher. Perché finanche l’esistenza dello scrittore è propriamente carveriana e ricca di interruzioni e svolte, ciò che poi rappresenta la sua prima raccolta: un addio alla prima moglie e l’abbandono verso quella condizione che ancora una volta Hemingway suggerisce, ossia quella della solitudine. È da qui che scaturisce la quotidiana ossessione per la sospensione, per l’utilizzo chirurgico del linguaggio, per la destrutturazione dell’amore come condizione inarrivabile per gli anti-eroi; e, al contempo, Carver non si dimentica di seguire l’altro suo grande maestro, Cechov, di cui riporta un’epigrafe quantomai esemplificativa all’inizio della famosa poesia Il posacenere:
«Potresti scrivere un racconto su questo posacenere, per esempio, e su questo uomo e una donna. Ma l’uomo e la donna saranno sempre i due poli del racconto. Il polo nord e il polo sud. Ogni racconto ha questi due poli – lui e lei».
Che si tratti di uno studente che non fa altro che masturbarsi in La moglie dello studente, alla violenza di Dì alle donne che usciamo, o all’inettitudine di Nessuno diceva niente. O, ancora, a quello che forse è uno dei suoi racconti più noti: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Che, come ci ricorda l’introduzione di Tess Gallagher a Orientarsi con le stelle, va di pari passo con i versi finale de Il portafoglio di mio padre, a testimoniare come Carver abbia sin dall’inizio accompagnato alla prosa la composizione poetica – come Bukowski – miscelando il suo acuto senso dell’umorismo all’apparente trasparenza del dolore.
Raymond Carver ha trovato nella forma sincopata del racconto quello che gli americani chiamano heartbeat (battito cardiaco), istruendo generazioni di scrittori, fino ai giorni nostri. Basti pensare alla “sua” voce giapponese Haruki Murakami, o alla sua inconfutabile presenza in scrittrici come Rachel Cusk, o ancora in uno dei più importanti casi letterari degli ultimi anni: Stoner di John Williams.
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Quello di Carver è un mondo che non può sfuggire al paradosso di una dicotomia: è perfetto perché imperfetto. Nella rottura, nel passaggio fra i due si annidano i miracoli di un uomo a cui importava soltanto scrivere ed essere amato. Scavando nel tempo addietro, come scrive Valeria Parrella, solo la grande Virginia Woolf in Gita la faro fa cose simili; guardando più avanti, invece, la mano di Carver c’è perfino in David Foster Wallace, che lo definiva «un artista delle parole». Ma questa è la prossima storia; nel frattempo rileggiamo una delle sue poesie più belle, La poesia che non ho scritto:
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliato prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo usciti sul balcone che domina
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.
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