Viaggi americani – Emily Dickinson, la perdita è l'infinito a metà
Nel 2016, il fine autore teatrale Terence Davis ha avuto l’ardire di portare la storia di Emily Dickinson sul grande schermo, lasciando a Cynthia Nixon l’onore e l’onore di interpretarla in A Quite Passion. La parola “ardire” non è casuale, perché raccontare la poetessa americana significa al contempo raccontare un turning point decisivo nella storia della poesia occidentale, non solo dal punto di vista propriamente letterario ma anche da quello sociale, che oggi andrebbe sotto il nome di “questioni di genere”; raccontare Emily Dickinsonsignifica parlare di tutte le donne che, anche oggi, scrivono poesia e vivono di letteratura.
Il cosiddetto “caso Emily Dickinson” scoppiò nel 1890, quando fu pubblicata una piccola raccolta di poesie che, nel giro di due anni, contò undici ristampe e portò la giovane poetessa a un successo del tutto inatteso. Sulla sua biografia tanto è stato scritto, a partire dall’elemento inequivocabile che da sempre ha affascinato gli studiosi, ossia quella reclusione volontaria nella “sua” Amherst (incantevole cittadina del Massachusetts) dal 1866 in avanti, già ammalata della “peggiore" delle malattie che può colpire un’amante della letteratura com’era la Dickinson: la curiosità. Passione del tutto endemica alla sua produzione che, infatti, ribolle in ogni suo scritto e, per osmosi, contagia i lettori, che non hanno mai smesso di indagare e interrogare e i suoi versi. Sì, perché uno dei topoi della produzione dickinsoniana è proprio quella della problematizzazione, anche derivante dall’indomita insoddisfazione della curiositas. Che, sin dall’infanzia, si sviluppa in ciò che per Dickinson costituirà il vero e proprio liquido amniotico della sua vita, ovvero il silenzio. A imporlo, senza dubbio, il singolare rapporto con il padre, che Emily amò quasi di nascosto, come la madre, entrambi incapaci di penetrare nella tempra tanto ribelle quanto fragile della figlia; parlando di sé e dei suoi fratelli lei stessa scrive: «Mio padre avrebbe dato la vita per noi tre, ma non ce lo fece mai sapere. Non ci fu una volta in cui ci avesse augurato buonanotte con un bacio.». (Lettere 1845 – 1886, Einaudi, a cura di Barbara Lanati). E, forse, da qui, la convinzione (poi consapevolezza) che la vita, più che avvicinare le persone, tende a separarle.
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Già intorno ai vent’anni, Dickinson sembrava aver compreso quale fosse il modello di vita che l’avrebbe assorbita completamente, tanto da portarla alla drastica scelta del 1866; parallelamente è quasi certo che sempre attorno a questa età iniziò a scrivere, tratteggiando, sin da subito, la natura multiforme della sua tematicità tra l’architettura di una grammatica franta ma non frammentaria, che induce temi chiavi come quello dell’amore, della solitudine, del desiderio e dell’abbandono – che avrebbe accompagnato soprattutto l’inizio della sua vita. Invero, in breve tempo, dovette confrontarsi con la perdita di alcune personalità care al suo cuore, come quella di Leonard Humphrey, suo mentore alla Amherst Accademy. Dacché, il legarsi alla sua produzione di quel ineludibile sentimento di spaesamento di fronte alla morte prematura e/o improvvisa:
Sono capace di passare a guado il dolore -
stagni interi di dolore –
ci sono abituata*.
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In questo senso cresce, al contempo, la concezione centrale di “fine” che intacca la sua questione esistenziale:
«Mi alzo perché splende il sole e perché il sonno mi ha abbandonata e mi spazzolo i capelli e mi vesto e mi chiedo che cosa sono e chi mi ha reso così e poi lavo i piatti e di lì un po’ li lavo di nuovo e poi è pomeriggio e vengono Signore in visita e poi è sera e alcuni esponenti di un altro sesso vengono per passare un’ora e poi il giorno è finito. Ma dimmi che cos’è la vita?»
A segnare un cambiamento profondo nella vita di Emily sarà la morte del padre il 16 giugno 1874; da quel momento in poi, infatti, l’angoscia del sentimento di morte tornerà a essere protagonista della poetessa americana. Ma questo “accidente improvviso”, trasformò il 1874 in uno degli anni più interessanti della sua vita: cresceva in lei l’amore per Otis P. Lord, e, parallele, le sue poesie si coloravano dei contorni di un sentimento nuovo, che però le appariva visceralmente famigliare. Come racconta Barbara Lanati nella sua appassionata (e accuratissima) biografia Vita di Emily Dickinson – L’Alfabeto dell’estasi (Feltrinelli Editore, 2000), è dello stesso anno una delle più belle poesie d’amore mai scritte:
Fai piano anima mia, nutriti poco per volta
Del suo raro avvicinarsi –
Fa’ in fretta affinché invidiosa la Morte
Non ne superi la Corazza –
Fai attenzione, che il suo sguardo finale
Non ti giudichi inopportuna 2
Fatti avanti - Perché il prezzo richiesto, tu l’hai pagato
La redenzione – per un Bacio (n. 1297)*.
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Otis è ciò che Emily ha sempre ricercato: una figura di congiunzione tra il giudizio severo proprio del padre e un’amante capace di farle perdere i sensi: «È gioco masochistico e insieme sublimazione perfetta» (Barbara Lanati, Vita di Emily Dickinson – L’Alfabeto dell’estasi). Dappiù, Otis stesso sarà in grado di condurla al quid di quella poesia metafisica disseminata eterogeneamente nella sua produzione, tanto da scoprire l’amore come quel particolare cortocircuito tra mente e corpo. Ciononostante, la cruda lezione dell’esistenza non abbandonerà mai la poesia di Dickinson; la cifra della vita è sempre e solo la solitudine, accanto talvolta a quel pastiche disordinato di eventi e segnali di cui parlava Amleto:
C’è una solitudine dello spazio,
una del mare
una della morte, ma queste
compagnia saranno
In confronto a quel più profondo punto
quell’isolamento polare di un’anima
ammessa alla presenza di se stessa –
Infinito finito (n. 1695)*.
Poi, l’11 marzo 1884, Otis trova una morte improvvisa, un infarto. Con questa, “il presente” di Emily finisce definitivamente. Il 13 maggio dello stesso anno entra in coma. Morirà due giorni dopo, dov’era nata e cresciuta.
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Il viaggio nella letteratura di Emily Dickinson è un viaggio di mancanze che non cessano di accrescere la loro forma e che trovano la necessità di una resilienza sia letteraria sia esistenziale proprio nella parola come veicolo poetico. A oggi, costituisce uno dei momenti di sublimazione della poesia metafisica occidentale e imprescindibile, come detto, oltretutto per la sua, anche inconsapevole ma non per questo eludibile, valenza di genere. La fascinazione, poi, del suo astrattismo concreto, intimamente legato all’esistenza solitaria e reclusa, liricizza una parola capace di oltrepassare rumorosamente la stanza che la vide volontariamente prigioniera dai trent'anni in avanti.
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Più di ogni altra poetessa e ogni altro poeta, Emily Dickinson dischiuse un viaggio iperbolico, imo, endemico, ossessivo. Apre, continuamente, altre porte; la meta si trova sempre su un’altra metà che a sua si rivela duplice e mutevole. Impossibile, pertanto, non ricordare la sua bellezza, con le parole immortali di As if the Sea Should part:
Come se il mare si dovesse aprire
mostrando un altro mare –
e quello – un altro – e i tre
non fossero che annuncio –
di epoche di mari –
non raggiunti da rive –
mari che sono rive di se stessi –
l’eternità – è così**.
*Traduzioni di Barbara Lanati da The poems of Emily Dickinson a cura di Th. H. Johnson, Harvard University Press, 1955.
** n. 695, traduzione di Silvia Bre, Centoquattro poesie, Einaudi, 2011.
Per la prima foto, copyright: Taylor Ann Wright su Unsplash.
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