Viaggi americani – Come Salinger ha cambiato la cultura americana con un solo romanzo
Puntata n. 1 della rubrica Viaggi americani
In un’intervista, F. Scott Fitzgerald sostenne che «fare della buona letteratura è come nuotare sott’acqua trattenendo il fiato»: si percepisce il peso di una nazione, correndo il rischio dell’onore e dell’onere di raccontarla.
Al pari delle grandi letterature mondiali – francese, tedesca, russa, italiana, spagnola, inglese – quella americana incarna plasticamente questa natura duplice, ben rimarcata nella preziosa Storia della letteratura americana di Marcus Cunliffe del 1954: «Si usa spesso descrivere lo scrittore americano come un individuo tormentato, dal punto di vista culturale uno spostato non meno di un selvaggio sudafricano che lavori per metà dell’anno in un comprensorio europeo».
Come detto, quindi, l’aperçu letterario d’oltreoceano è un grande racconto nazionale mosso dall’esigenza di una letteratura; ecco allora che percorrere questo itinerario diventa un momento di coscienza del mondo americano – e non solo – ineludibile per ogni amante della letteratura stessa e dell’uomo nella sua poliedricità. Un “viaggio americano” imprescindibile, rubando il titolo a Fernanda Pivano.
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In quest’ottica si inserisce alla perfezione una figura altamente iconica della storia a stelle e strisce, ossia quella di Jerome David Salinger, al quale, per Newton Compton nella traduzione di Nello Giugliano e Giulio Lupieri, è stata recentemente dedicata da Kenneth Slawenski una biografia densa e appassionata: Salinger. La vera storia di un genio, su cui si basa la pellicola sullo scrittore americano in lavorazione a Hollywood con Nicholas Hoult e Kevin Spacey.
Salinger è uno dei pochi autori che è riuscito a raggiungere l’immortalità letteraria grazie alla pubblicazione di un libro soltanto: Il giovane Holden; com’è stato tradotto l’inglese The Catcher in the Rye sin dalla prima edizione Einaudi. Un romanzo che ancor oggi, a cent’anni dalla nascita del suo autore, è un vero e proprio racconto cult. Per molti, d’altronde, una delle voci più importanti dell’America postbellica è proprio la sua: quella di un giovane nato nel cuore pulsante della cultura letteraria newyorkese che, dopo aver pubblicato qualche racconto sul «New Yorker»(la testata che poi si rifiutò di pubblicare Il giovane Holden), decide di abbandonare la scena dando alle stampe nel 1951 l’Holden, trasferendosi poi in un remoto paesino di campagna al confine col Vermont, e raggiungendo quella «pace meravigliosa nel non pubblicare» (Salinger. La vera storia di un genio, pag 53). E, quasi certamente, è anche questo “autoesilio” – all’acme del successo – a circondare e fomentare l’atmosfera di culto attorno a quella che Slawenski chiama la poetica del silenzio e al protagonista del romanzo Holden Caulfield. Un trentenne americano – come l’autore – che s’impiglia nell’ipocrisia di un mondo in disordine e nelle sue più intime contraddizioni. Che generano una ribellione contro la società coeva, contenendo, al contempo, «un giudizio sul genere umano» (Ibidem, pag. 215); che lo portano finanche a detestare se stesso. È così che, come Salinger trova nella solitudine della scrittura la salvezza e la giusta distanza dall’attenzione dei lettori, Holden si rifugia nei voli della fantasia. Ma entrambi sono vittime dello stesso dramma: «l’innocenza infranta» (Ibidem, pag. 222)
Fra le pagine de Il giovane Holden c’è un messaggio che è stato in grado di cambiare la vita di gran parte della generazione che l’ha letto per la prima volta. La sua carica rivoluzionaria e ribelle si evince sia a livello linguistico, con il brevissimo incipit seguito da un primo paragrafo lunghissimo che sfida i dettami editoriali dell’epoca, sia nella volontà coriacea di ribadire una tradizione letteraria che si espande dal Dickens di David Copperfield all’Huckleberry Finn di Mark Twain, duellando fra la tigre e l’agnello della celebre poesia di William Blake.
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Ma l’eredità che Salinger porta avanti si allaccia anche alle frequenze di un altro personaggio immortale della scena letteraria americana: Ernest Hemingway (incontrato nel 1944 durante la battaglia delle Ardenne). Salinger segue indubbiamente la severa legge dei personaggi del nativo di Oak Park, dacché «come in Hemingway gli uomini che egli ammira sono soprattutto sinceri; il rancore lo riserva solo per l’ipocrisia» (Storia della letteratura americana, Marcus Cunliffe, pagg. 359-360). Altresì per Salinger è centrale la sacralità dei bambini, che descrive con la delicatezza di un romanzo vittoriano: «pochi degli adulti emergono intatti dalla corruzione dell’essere cresciuti» (Ibidem, pag. 360).
Per arrivare a questo risultato, l’autore americano si allontanò da ogni forma di distrazione, convinto di poter produrre una vera e propria opera d’arte, come gli aveva sempre detto la madre, a cui è dedicato il romanzo.
A riguardo, l’esperienza che Salinger fece della filosofia e della cultura Zen risultò decisivo per intendere la scrittura come concentrazione totale e solitaria, e per sopravvivere all’avvilimento che l’aveva investito al termine del 1945. In questo senso, la concretizzazione del romanzo «fu per lui una catarsi, un atto di purificazione» (Salinger. La vera storia di un genio, pag. 201) che distinse il momento di vera «purezza nella vita di Salinger» (Ibidem, pag. 202). Così le pagine del romanzo hanno affrontato tante tribolazioni quante l’autore stesso: «lo sbarco in Normandia; sfilato tra le strade di Parigi; visto i cadaveri di una moltitudine di posti diversi, passate per i campi di sterminio della Germania nazista» (Ibidem, pag. 202).
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Le esperienze belliche però, come per lo stesso Hemingway, hanno indissolubilmente segnato l’animo dello scrittore americano, che infatti fu ricoverato subito dopo la guerra per quello che oggi chiameremmo disturbo post-traumatico, cristallizzato in uno dei suoi racconti migliori A Perfect Day for Bananafish. Il cui finale scioccante si ispira a quello che l’autore racconta a un amico in una lettera: Salinger al termine della guerra rimase seduto nel suo letto per giorni con una pistola in mano domandandosi come sarebbe stato spararsi nella mano sinistra.
Salinger, con un romanzo e una manciata di racconti, riuscì nell’impresa di cambiare la rotta della cultura americana dell’epoca e, al contempo, di lasciarla ancor oggi immersa nel suo immaginario sfuso e confuso, come nell’epilogo irrisolto de Il giovane Holden: «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque».
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