Vi racconto la mafia del Gargano. “Ti mangio il cuore” di Carlo Bonini e Giuliano Foschini
Edito da Feltrinelli, in libreria dal 30 maggio scorso, Ti mangio il cuore è un libro (di 224 pagine, ma che si fa leggere in un giorno, tanto ti tiene incollato alla pagina) coraggioso con un ambizioso fine: gettare luce su una delle organizzazioni mafiose meno conosciute della nostra Penisola, vale a dire “la società” come la chiamano a Foggia, o “la mafia dei montanari”, come è chiamata sul promontorio del Gargano.
Partendo dagli atti giudiziari, dalle interviste con i protagonisti e dai fatti di cronaca che hanno insanguinato il tacco dello Stivale, i due autori ricostruiscono la storia ai più sconosciuta di un’organizzazione a delinquere dalle caratteristiche uniche. Decisamente diversa dalla corregionale Sacra Corona Unita – situata questa nella zona più meridionale della Puglia – e dalle altre mafie italiane, la “mafia dei montanari” brilla per spietatezza e crudeltà, obbedendo solo alla legge del sangue e della terra. Nata in un luogo impervio e inospitale – il promontorio del Gargano – dove domina il caldo – l’afa permeante del Sud Italia, che ti penetra fin dentro le carni affaticandoti nel respirare – e dove la famiglia, come scriveva Sciascia nel “Giorno della civetta «è l’unico istituto veramente vivo […] ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico che come aggregato naturale e sentimentale», questa associazione ha avuto a partire dagli anni Ottanta una crescita esponenziale nell’ordine della quantità di crimini e nell’efferatezza.
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I protagonisti del libro – tutti ovviamente reali – oltre alle forze dell’ordine sono infatti membri di famiglie contadine che si sono votati alla criminalità dopo aver scoperto, negli ultimi anni,che in un territorio come quello del Gargano, caratterizzato da anfratti, foreste impenetrabili e migliaia di altri tipi di nascondigli, era decisamente agevole nascondere le armi e la droga contrabbandate dall’Albania o dagli altri Paesi balcanici. L’esplosione successiva del turismo nella zona (legato alle località balneari ma anche, e soprattutto, quello religioso che si connette alla figura di Padre Pio, famoso figlio di quella terra) e il conseguente afflusso massiccio di denaro le hanno consentito in seguito di espandersi aggiungendo alle rapine il contrabbando e lo spaccio di droga, il mercato degli appalti truccati e del pizzo ai commercianti.
Del passato da arcigni allevatori di montagna questi personaggi hanno perciò mantenuto la crudeltà, la diffidenza e il senso della famiglia che, oltre ad avere scatenato faide eterne che da decenni, e ancora ora, macchiano il Gargano, permea tutte le loro azioni, aggiungendo all’orrore di un omicidio una punta di sadismo. Marchio di fabbrica delle varie famiglie che compongono la “mafia dei montanari” sono, ad esempio, il fatto che, una volta ucciso il nemico bisogna sfigurarne il volto a colpi di fucile, in modo che i famigliari non possano piangerne il corpo, o darlo in pasto ai maiali. O ancora il fatto che ogni anno uccidano un uomo il 21 marzo, per festeggiare in un modo sbeffeggiatorio la festa dei morti uccisi per mafia.
Questi sono solo alcuni degli aneddoti che il libro raccoglie, raccontando amori, odi, sofferenze e aspirazioni dei vari protagonisti, gettandoci così in una storia di faide in una terra che, a solo poche ore di macchina dalla nostra capitale, sembra invece tanto lontana nel tempo e nello spazio.
Quasi impossibile risulterà posare il libro nella lettura della storia di Rosa di Fiore (prima pentita di questa mafia all’apparenza inscalfibile), novella Elena di Troia che come la sua omologa omerica ha scatenato tante morti, sposando prima un Tarantino e poi un Ciaravella, famiglie rivali, delle vicende dei Li Bergolis, i Romito e le varie famiglie con le loro mutevoli alleanze o dei tentativi delle forze dell’ordine, come il questore di Foggia Piernicola Silvis e i vari sostituti procuratori quali Giuseppe Gatti o Lidia Giorgio, di portare ordine in una terra distrutta da una vera e propria guerra.
Scopo manifesto del volume è dare luce a una vicenda che ha avuto raramente l’attenzione mediatica che meritava, come lamenta Silvis in un’udienza con Doris Lo Moro – riportata nel libro – quando afferma:
«Le dico solo che il primo aprile abbiamo trovato un deposito di armi. E le dico che il sottoscritto, che in trent’anni di polizia diciamo pure ne ha viste, è rimasto impietrito. In un garage, perfettamente oleate e pronte all’uso, erano custodite dodici armi lunghe, tra fucili mitragliatori e kalashnikov, quattro pistole, otto silenziatori, una mitragliatrice dal ciclo di fuoco continuo con treppiede, 18mila proiettili di tutti i calibri, uno storditore elettrico, una penna pistola e due giubbotti antiproiettile. Ebbene, la circostanza ha avuto la dignità di un servizio in cronaca della “Gazzetta del Mezzogiorno”, con tutto il rispetto per la “Gazzetta”. Dico solo che, il giorno dopo, quattro pistole, quattro, sequestrate in Calabria, hanno goduto nei notiziari nazionali del titolo Ritrovato arsenale della ’ndrangheta. Torniamo al punto, insomma. Quello che mi sta più a cuore. Stiamo combattendo una guerra di cui nessuno sa.»
Non vi è una spettacolarizzazione della mafia (come mi accorgo la mia recensione può aver fatto pensare) che finisce sempre per celebrare i criminali che in realtà prova a denunciare. Gli eroi del racconto sono le forze dell’ordine che quotidianamente cercano di riportare lo Stato sul Gargano, sono le persone come i fratelli Luciani che in una terra avara e matrigna ogni mattina si levano presto per andare a coltivare i campi, senza imboccare le facili scorciatoie della criminalità. Eroine sono le mogli dei Luciani, che dopo la morte dei mariti – colpevoli di essersi trovati al posto sbagliato nel momento sbagliato, diventando scomodi testimoni di un regolamento di conti – davanti alle telecamere di uno stato che finalmente ha deciso di riconoscere l’esistenza e la pericolosità della mafia del Gargano, dichiarano fra le lacrime che non è giusto e non si può vivere in un clima di tale incertezza, dove si ha paura anche solo di uscire di casa, dato che ricevere un proiettile nel petto è una fatalità pari al bucare lo pneumatico della macchina o prendere la pioggia per avere dimenticato l’ombrello a casa.
«Questa è una mafia che isola. Tutti. Nessuno escluso. Fa sentire soli i testimoni. Fa sentire soli i collaboratori di giustizia. Fa sentire sole le forze dell’ordine. E, sì, fa sentire soli anche noi.»
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Come lo stato totalitario per Hannah Arendt, la mafia annulla la personalità gettando il singolo nella più completa solitudine, prima di inglobarlo e farlo sentire parte di qualcosa. Così agisce anche quella del Gargano che più di altre organizzazioni ha avuto la possibilità di operare grazie allo scarso rilievo mediatico che ha suscitato a livello nazionale (tanto da essere riconosciuta come tale solo a metà degli anni Duemila). Per combatterla quindi bisogna gettare luce su di essa, al fine che tutti sappiano che esiste e quanto è pericolosa. Solo così, si potrà iniziare a contrastarla e a fare sentire meno sole le sue vittime. O, usando le parole pronunciate da Gatti in un’audizione del Consiglio superiore della magistratura “sull’organizzazione degli uffici giudiziari competenti per l’azione di contrasto nei confronti della criminalità organizzata”:
«Vi starete chiedendo: e allora, come si combatte questa mafia senza nome? Io ho scoperto che un’arma la abbiamo. Dobbiamo sviluppare il senso del ‘noi’, facendo rete.»
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