Versi che vengono dal futuro. La “Nuova poesia americana”
Puntata n. 122 della rubrica La bellezza nascosta
«Niente è bello come la morte,/pensa Morte: allodola immobile sul prato,/gambe-pagliuzza raccolte, fioriture esplose/di puzzole e opossum sulla strada,/cane che si trascina tremante e scende i gradini del portico di casa, e si blocca/in una smorfia di gengive nere/prima di cadere riverso tra i papaveri./Gli orrendi papaveri. In Afghanistan/sono resi nuovamente belli/da un maleficio misterioso. Orrendi/sono i soldati americani che arrivano, rasati/di fresco, che controllano l’e-mail,/ma belli supini in mezzo alla strada/o con i loro pezzi sparsi/come spruzzi d’irrigazione o di mitra/o resti stellari. Amabile/è la loro stella quasi spenta/che proietta la propria massa nello spazio remoto, ancora più amabile la supernova/che si fa a pezzi da sé/e collassa come Lana Turner/nella poesia di Frank O’Hara./Niente è bello come una poesia/tranne forse un usignolo,/pensa il poeta che scrive della morte,/affondando verso il Lete. Amabile fiume/in cui i nomi vengono catalogati con cura. In questo quadrante ci sono i fiumi del dolore e del fuoco./Nord della griglia, Azimut nero./Lungo fiumi di fanculo e orchidee/discendono cuori accesi in barchette/che giocose vanno verso valle, vorticando e infiammandosi, infiammandosi/in spirali, sempre più verso il basso…/verso il basso, la più bella di tutte le direzioni»
(Kim Addonizio).
La poesia, soprattutto in America, sta conoscendo una seconda giovinezza diventando uno dei generi letterari più diffusi e rilevanti.
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Molti poeti americani stanno tentando, in questi anni, una riscrittura del presente, di un presente fatto di solitudini e di ingiustizie, di disperazione e di nostalgia, ma un presente fatto anche di gesti usuali, di routine, di immagini semplici che fanno parte e appartengono all’ordinario di tutte le persone. Sono voci che vibrano, quelle dei nuovi poeti americani, voci che provano a scuoterci e che tentano di portarci la realtà in maniera diversa dal passato, con un linguaggio forse più immediato, forse più in linea con la frenesia e la velocità della nostra società.
A curare il secondo volume della Nuova poesia americana, pubblicato da Black Coffee sono Damiano Albeni e John Freeman, con la traduzione a cura dello stesso Damiano Albeni. I sei poeti scelti in questa raccolta sono: Kim Addonizio, Garrett Hongo, Lawrence Joseph, Kay Ryan, Aracelis Girmay e Kevin Young.
«A Chicago nevica piano/e un uomo ha appena fatto il bucato della settimana./Esce nella penombra della sera incipiente/con una borsa di plastica sgualcita/piena di indumenti ben piegati, e, per un attimo, gusta la sensazione/di tepore del bucato e della carta spiegazzata,/come di flanella sulla mano non guantata./C’è un lucore rembrandtiano sul suo volto,/un triangolo arancione nel cavo della guancia/mentre un’estrema vampa di tramonto/incendia le facciate dei negozi e le finestre accese sulla strada./È asiatico, tailandese o vietnamita,/magrissimo, vestito poveramente con pantaloni stropicciati e un impermeabile scozzese,/sporco e troppo grande./Cammina con cautela sul lustro del ghiaccio/sul marciapiedi accanto alla sua auto,/apre la portiera posteriore della Fairlane,/si china per sistemarci il bucato/e si volta, per un istante,/verso la raffica di passi e le grida dei pedoni/mentre un ragazzo – altro non era –/esce camminando all’indietro dal negozio di liquori sull’angolo/sparando con una pistola, facendo fuoco,/un solo colpo, all’uomo attonito
che cade in avanti/portando le mani al petto…»
(Garrett Hongo)
Versi differenti da quelli a cui possiamo essere abituati, voci più singolari, voci più intense, poeti che sembrano raccogliere a piene mani dalla terra, che si sporcano, che gridano, che ci fanno sentire il disagio e le insofferenze di un’America che viaggia a velocità folle. Un nuovo modo di fare poesia, qualcosa che sembra prendere una netta distanza da ciò a cui eravamo stati abituati, qualcosa che cerca distanza dalla storia, da tutto ciò che c’è stato e che prova, attraverso la sua originalità, ad arrivare in luoghi dove alla poesia non era stato possibile.
«Quando ricevo la telefonata che mi dice di mio fratello,/sono su un treno fermo mentre sto lasciando la città/& la notizia si impacca in me – un carico di merci –/anche se è lui all’altro capo della linea/adesso, e dice tuttobenetuttobene –/Confiscatemi gli occhi, voglio voltare le spalle ai capelli sul pavimento di casa sua/& a come sono finiti lì lunedì,/ma il mio unico cuore cade come un caco pingue e triste/caduto dalla mano del vecchio albero di Turczyn./Voglio dormire. Non voglio dormire. Vedi,/un giorno, non oggi, non ora, saremo spariti/da questa terra di cui conosciamo i gladioli./Mio fratello, questo rumore,/un amore [tu] che ho amato/con tutto il cervello & il respiro saranno; mi è stato detto, oggi, di pensarci/mentre percorro i lunghi binari in uscita & sogno così bene che vedo una pianta alla finestra della casa/che mio fratello divide con il suo amore, le loro scarpe. &/eccolo, a letto addormentato/con questa stessa donna la cui lunga pelle/le copre tutte le ossa, in una città chiamata Oakland,/& i loro sogni stanno sospesi su di loro/un po’ come un lampadario, & i loro denti/mandano lampi nella notte, oh, corpo./Oh, corpo, sii stretto ora da chi ami./Anni interi verranno trascorsi sotto queste impossibili stelle/quando il fango sarà l’unico/animale che dorme con te/& ti tocca/con la bocca»
(Aracelis Girmay)
Parole che sembrano venire dal futuro ma che si trascinano gli echi di qualcosa di passato che continua a restare vivo e a bollire sotto la pelle di ogni essere umano.
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Frasi che vengono fuori come se fossero un movimento naturale, senza artifizi, senza difficoltà, poesie che sono spaccati di vita, che somigliano a fotografie, a frame, ad istantanee che ci restano impresse nella memoria come qualcosa di vivo.
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