Venezia rischia di diventare un parco divertimenti? Intervista a Paolo Malaguti
È da qualche anno che l’attenzione su Venezia è alta, il problema è che il suo destino sembra interessare solo poche anime buone, mentre per la gran parte ci lasciamo scivolare addosso le notizie sulle grandi navi, sul Mose o sui tornelli per calmierare gli accessi.
È per questo che un libro come L’ultimo Carnevale di Paolo Malaguti (Solferino) risulta importante e interessante, perché toccando alcuni temi caldi relativi al futuro di Venezia, ci spinge a interrogarci sulle cause, sullo stato presente e sul destino di una città che dovrebbe sempre più riguardae tutti noi e che forse ci dice più di quanto siamo disposti ad ascoltare.
Una domanda a bruciapelo che nasce spontanea trovandosi a leggere il suo libro e fin dalle prima pagine: cosa sta succedendo a Venezia e perché è necessario raccontarlo?
Venezia oggi soffre di quattro malattie simultanee: le isole della laguna sprofondano (il fenomeno della subsidenza è lento ma costante, in media di 1,5 mm all’anno); il livello del mare si alza (fenomeno in accelerazione negli ultimi due decenni, di circa 3,5 mm all’anno); il centro storico si spopola (siamo a 50.000 residenti, a fine Ottocento a Venezia abitavano più di 170 mila persone!); il turismo di massa satura la città senza sosta durante tutto l’anno, rendendo complicate anche le azioni quotidiane più banali, come fare la spesa o andare a scuola.
È ovvio che, se le cose non cambiano nei prossimi venti, massimo venticinque anni, Venezia ha il destino segnato. E ormai le proiezioni ci confermano che non si tratta di rischi proiettati in orizzonti remoti: l’annegamento o la desertificazione di Venezia potrebbero essere purtroppo visti già da chi oggi ha 20 anni.
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In una delle prime pagine del romanzo lei ripercorre le varie tappe della storia veneziana che hanno condotto la città a diventare quello che si vede nel libro. C’è davvero un filo rosso o un piano che va dai tornelli al ticket d’ingresso fino alla trasformazione che lei immagina?
Non credo in un piano per la “mercificazione” definitiva di Venezia, credo anzi che la grande maggioranza di quanti hanno avuto e hanno responsabilità nella gestione della città lavorino per il bene e la salvezza di Venezia e dei suoi abitanti. Poi però assistiamo agli assurdi teatri della corruzione per il sistema di dighe del MOSE, a oggi inattivo. O contempliamo il ripetersi periodico dei problemi dovuti a un sovraffollamento dei turisti nel centro storico. La prima volta che ho visto alla televisione un servizio sui tornelli installati per calmierare gli accessi a Venezia ho subito pensato a una sorta di “prima tappa” verso un futuro inevitabile di città-museo, nella quale i residenti non avranno più spazio. Spero con tutto il cuore di sbagliarmi, ma i segnali non sono confortanti.
La Venezia del 2080 diventa Venice Park, cioè un parco vero e proprio visitabile solo a pagamento e sotto la stretta sorveglianza di guide appositamente formate. C’è una relazione con ciò a cui siamo abituati con la creazione di centri commerciali e outlet che riproducono luoghi reali dai quali però siamo sempre più lontani (uno fra tanti, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano)? Quali sono i rischi insiti in un tale processo e perché ci stanno sfuggendo?
Credo proprio che la relazione ci sia: in qualche modo si accetta la rinuncia alla sfida di un concetto “complesso” di spazio e di paesaggio, per abbracciare un’idea (in fin dei conti consumistica) di spazio-funzione. Come un outlet di nuova generazione, anche la Venezia-Museo che si delinea all’orizzonte è uno spazio che ha rinunciato a essere città, cioè somma compresente di luoghi di vita, di formazione, di religione, di legge, di servizi… Per diventare SOLO spazio turistico. C’è però una differenza, e non di poco conto a mio avviso: il Vulcano Buono è stato progettato ad hoc, si crea cioè uno spazio da zero, con quella funzione, discutibile o meno. Venezia invece è nata come città, come luogo di vita, di quotidianità, e oggi corre il rischio sempre più evidente di trasformarsi in outlet del turismo di massa… Sarebbe un precedente preoccupante per la civiltà occidentale.
In questa trasformazione ci sono senz’altro delle responsabilità politiche evidenti. Ma quali sono quelle individuali?
Beh, la prima responsabilità individuale è nella riconferma, tramite il voto, di chi si è già reso responsabile di politiche inefficaci o apertamente dannose riguardo un dato contesto. Mi limito a un esempio nel merito del Veneto, che conosco meglio: tra anni Sessanta e Settanta questa regione è uscita da un’economia rurale a vocazione migratoria per diventare uno dei maggiori motori economici europei. Nell’arco di una generazione è fiorita la ricchezza, si sono moltiplicati i servizi, il benessere si è diffuso. Questo però ha avuto delle contropartite paesaggistiche e ambientali che in misura diversa interpellano i singoli. Sui giornali si leggono i fatti più eclatanti, ad esempio lo scandalo delle falde inquinate da PFAS, o le morti bianche al petrolchimico di Marghera, giusto per restare vicini a Venezia… Ma ci si dimentica che da ormai più di vent’anni il Veneto è sempre tra le prime tre regioni in Italia per consumo di suolo… E questo riguarda in buona misura l’edilizia privata. Alla fine il problema è semplice, e risponde a una domanda: quali sono le nostre priorità? Finché la priorità dichiarata della classe politica cui noi rinnoviamo la nostra fiducia sarà il PIL, è chiaro che problemi come quelli che affliggono Venezia o il paesaggio italiano risulteranno secondari, sacrificabili.
Carlo, Michele, Rebecca e Giobbe non sono solo quattro protagonisti del romanzo, ma sono anche altrettanti modi di relazionarsi a Venezia com’è diventata e com’era. A quale di loro si sente più vicino?
È vero, i quattro protagonisti rispondono alla necessità di raccontare diversi atteggiamenti possibili nei confronti della stessa città, diverse storie di avvicinamento o di allontanamento da Venezia. Senza dubbio mi sento più legato a Giobbe, l’ottantenne ex-veneziano cacciato dalla sua città dopo una vita intera, e che a Venezia ritorna, in qualità di turista, alla ricerca di qualcosa di estremamente importante… Sono legato a Giobbe perché è il primo personaggio che ho messo a fuoco quando ho iniziato a costruire il romanzo, perché mi affascina la ricchezza e la complessità di spunti narrativi che un personaggio anziano offre, e infine perché, in fin dei conti, Giobbe è nato più o meno nel 2000, è un millennial, uno dei miei studenti di oggi: naturale che mi sia sentito particolarmente legato a lui.
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Lei è nato e vissuto in Veneto, dove insegna nei licei, dunque a contatto con diverse generazioni di adolescenti. Com’è cambiato il loro rapporto con il territorio in cui vivono, con la sua storia e le sue trasformazioni?
Negli ultimi due decenni credo che sia cambiato il modo stesso di vivere il territorio, per diverse ragioni. Spesso un adolescente accetta di frequentare l’università o di cercare un lavoro fuori d’Italia, e già questo a volte si traduce in una disaffezione verso il proprio territorio; in secondo luogo è normale incontrare genitori che si rifiutano di insegnare, a fianco dell’italiano, anche il dialetto ai propri figli, mentre questi codici linguistici (se vissuti senza chiusure settarie e campanilistiche) danno delle bellissime chiavi interpretative del proprio contesto di riferimento; infine lo stesso paesaggio, in Veneto, è sempre più spesso “omogeneizzato”: l’edificazione ipertrofica, la fusione dei confini tra i diversi comuni, la cancellazione dei “paesaggi primari” dietro selve di capannoni e di centri commerciali (che continuano a sorgere come funghi!) fanno sì che un ragazzo, se non viene accompagnato da qualcuno, fatica a orientarsi, vive in non-luoghi. Anche da qui, in fin dei conti, partono alcune cause della possibile (o, per i più pessimisti, probabile) morte di Venezia.
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Per la prima foto, copyright: Julien Ricard su Unsplash.
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