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Valerio Varesi, “Il commissario Soneri e la strategia della lucertola”

Valerio Varesi, Il commissario Soneri e la strategia della lucertolaValerio Varesi, scrittore e giornalista di «Repubblica», propone una nuova avventura del suo personaggio più celebre con il romanzo Il commissario Soneri e la strategia della lucertola (Frassinelli, 2014). Siamo in una Parma crepuscolare, avvolta dalla nebbia o ricoperta dalla neve, nella quale alcuni fatti misteriosi, all’apparenza indipendenti l’uno dall’altro, trovano una progressiva concatenazione: un vecchio morto assiderato in una casa di cura, un sindaco sparito, un massiccio giro di droga che si alimenta grazie a un sistema ingegnoso quanto crudele. Tutto si svolge sullo sfondo di un quadro politico fatto di corruzione e sotterfugi, espressione di un potere stratificato e malato a ogni livello. Soneri guarda la sua città con occhio malinconico (le osterie chiudono, scatta la psicosi per l’allerta neve, le chiese vengono rivoluzionate nella forma architettonica…) e, componendo la scomoda verità, si getta nella soluzione di un caso complesso. Per la spiegazione del titolo, dovrete attendere le ultime pagine.

Di seguito un’intervista che Valerio Varesi ha gentilmente rilasciato alla nostra redazione.

 

Il commissario Soneri si sofferma spesso sull’improbabile, cercando di sondarne tutte le possibili vie. In questo senso, nella sua formazione da scrittore di gialli e polizieschi, quanto hanno contato autori come Poe e Conan Doyle, maestri dell’improbabile che diventa realtà?

Dato per scontato che siamo tutti figli dei grandi del passato, mi sento molto più vicino a Poe che a Doyle. Il primo è uno dei grandi indagatori dell’inconscio, uno speleologo dell’animo che suggerisce senza catalogare, un maestro del “non detto”. Il secondo appare più figlio del positivismo della sua epoca con la pretesa o l’ansia di controllare l’accaduto, disinnescare il suo carico di mistero e quindi affermare la valenza della scienza anche a partire dalle ipotesi improbabili secondo un criterio che ritengo vicino allo sperimentalismo scientifico. Il mio commissario è molto lontano dallo “spirito geometrico” di Doyle seguendo un metodo opposto. Non è deduttivo, ma induttivo. Non parte dalla realtà studiata sulla base di una teoria da verificare, ma si lascia infiltrare da essa fino a risalire a una teoria partendo dai particolari.

 

Riguardo invece alla verità, nel suo romanzo uno dei personaggi riproduce dipinti con una fedeltà assoluta, tanto che non si riesce a distinguerli dagli originali. Dice di lui che ha la capacità di rendere autentico il falso. Non è quello che può fare anche un bravo scrittore?

Non c’è dubbio che uno scrittore costruisca storie false che appaiono vere. La differenza sta nel fatto che il falsario del mio libro si rifiuta di considerarsi un artista in quanto, pur avendo la mano del pittore, è privo dell’idea. Riproduce capolavori perfettamente, ma solo ripercorrendo le pennellate dei maestri. Ci mette l’abilità, certo, ma non conosce la formula che ha guidato l’artista nel creare quelle forme straordinarie. Lo scrittore è colui che ruba dalle vite altrui visi, caratteri, episodi e stati d’animo rimontando tutti questi frammenti sulla base di un’idea progettuale che quasi sempre sfocia in una grande metafora nella quale si ritrova una sua idea di mondo. Quest’ultima, per essere efficace, non può prescindere dalla vitalità dei personaggi e da uno stile riconoscibile. La forma dello scrivere è essa stessa il contenuto. Prova ne è che essa può vivere e costituire l’ossatura di un romanzo a prescindere dalla trama, mentre non è vero il contrario.

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Valerio VaresiLa forza della sua scrittura sta anche nell’evocazione della natura, sempre presente: la neve, il bosco, i paesaggi. Questa però fa da contrappunto alla visione di una città marcia dall’interno, assoggettata alla corruzione politica e alla criminalità. Finzione a parte, quanta ispirazione viene dalla sua Parma?

Il paesaggio, sia esso urbano, fluviale o montano, è un elemento essenziale dei miei romanzi. Assurge al ruolo di “correlato oggettivo” degli stati d’animo del commissario. Ma mentre la natura (il Po, la Bassa, l’Appennino) sono elementi perenni e indifferenti agli accadimenti umani, la città, al contrario, è il fermento mutevole delle attività umane e lì vi si concentrano i mali del nostro vivere. Parma, coi suoi scandali, è uno specchio miniaturizzato dell’Italia della provincia padana. Analizzando la mia città è come se eseguissi un prelievo istologico dal corpo del Paese, e vi ritrovassi le cellule malate che sono già sparse ormai ovunque”.

 

Il libro è anche una costante riflessione sulla nostalgia dei tempi passati e sulla mezza età. Soneri esprime il suo senso di inadeguatezza soprattutto per un mondo in cui imperano tablet, smartphone e social network. Si sente un po’ come il suo protagonista oppure no?

C’è nostalgia per un mondo che aveva un progetto sociale, un “noi” e non solo l’imperante “io” imposto dagli anni Ottanta dal liberismo economico. In più si sente forte il fallimento di una generazione la quale ha ereditato dai padri un mondo molto migliorato, ma consegnerà ai propri figli un mondo peggiorato non solo dal punto di vista economico. Soneri non è pregiudizialmente ostile alle nuove tecnologie, ma all’uso che se ne fa, spesso del tutto futile e tendente a complicarci l’esistenza più che a facilitarcela. Il telefonino, per esempio, è una sorta di guinzaglio elettronico che spesso ostacola il commissario più che avvantaggiarlo. Del resto, malgrado il progresso dei nuovi strumenti, non è migliorata di una virgola la nostra vita pratica. La burocrazia (compresa quella della Questura) è rimasta primitiva e farraginosa, la pubblica amministrazione è sempre labirintica. L’unico vantaggio portato della tecnologia è una formidabile accelerazione nei ritmi della nostra vita da far invidia al fordismo.

 

Una domanda un po’ più tecnica: il testo è ricchissimo di dialoghi, forse ne costituiscono proprio il nucleo centrale. Dialoghi peraltro molto cinematografici. Crede che la serie Nebbie e delitti, adattamento televisivo dei romanzi del commissario Soneri, abbia influenzato la sua maniera di scrivere i dialoghi?

Direi di no, visto che gran parte dei miei libri sono usciti prima che Soneri approdasse in tv. È però vero che la scrittura non può prescindere dai nuovi linguaggi che si affermano attraverso il cinema e il piccolo schermo. Uno scrittore non è mai indifferente alle altre forme d’arte e ne viene fatalmente influenzato. Io non faccio eccezione. Va anche detto che il dialogo è connaturato al modo di indagare di Soneri che si basa sul costante rapporto vis à vis con i protagonisti di una vicenda.

 

Infine, una domanda inevitabile: qualche anticipazione sulle prossime vicende del suo personaggio più celebre, oppure ha altri progetti in corso?

Il progetto a cui sto lavorando non è di natura poliziesca, bensì rappresenta la conclusione di un percorso cominciato con La sentenza, ambientato negli anni della Resistenza, e proseguito con Il rivoluzionario. L’idea che ho è quella di raccontare il periodo che va dal 1980, data alla quale si ferma proprio Il rivoluzionario, a oggi. È il progetto più ambizioso che mi sia fin qui proposto e tuttora non so se riuscirò a portarlo a termine. Sarà un libro, infatti, che m’imporrà di cambiare stile e impostazione. Insomma, un libro di rottura a tutto tondo con le mie modalità di approccio al testo.


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