Usa la poesia per “curare” l’animo dei ragazzi, i laboratori di Isabella Leardini
La poesia come strumento di cura. Come mezzo per prendersi cura di quella verità che ogni ragazzo si porta dentro e spesso fa fatica a lasciare emergere. La poesia come azione concreta affinché i ragazzi che corrono nel buio scoprano la loro luce interiore.
Sono questi gli intenti dei laboratori di poesia gestiti da Isabella Leardini e rivolti a bambini e ragazzi delle scuole superiori. Laboratori nei quali Leardini, a sua volta poetessa, introduce i ragazzi alla lettura della poesia e alla vera e propria creazione di poesie come modo per mettere in discussione se stessi, riconoscere e parlare di quelle emozioni nascoste che col tempo potrebbero diventare vere e proprie ombre nascoste.
Di questo Isabella Leardini ha parlato in Domare il drago. Laboratorio di poesia per dare forma alle emozioni nascosta (edito da Mondadori) e da questo punto siamo partiti per la nostra chiacchierata con lei.
Vorrei cominciare dalla dedica: «Ai ragazzi che corrono nel buio». Chi sono questi ragazzi? Possiamo provare a definire il buio in questione?
I ragazzi che corrono nel buio sono i protagonisti del libro, lo attraversano con i loro versi e le loro storie, ma sono anche tutti coloro a cui assomigliano. Alcuni sono quasi bambini, hanno poco più di 10 anni, altri sono adolescenti o quasi adulti, tutti si sono trovati presto a toccare un limite: una zona d’ombra della vita in cui la paura, l’ansia, il dolore, piccolo o grande che sia, diventano un agguato continuo. Anche ragazzi apparentemente immobili a volte corrono nel buio.
Il buio di cui parlo è fatto di un’energia che non conosce la propria forma, può diventare un’ombra distorta e chiamarsi panico, anoressia, autolesionismo, depressione, o semplicemente infelicità. Ma anche se ne sembrano rapiti, i ragazzi in questo buio corrono come in un bosco, cercano senso, e qualche volta conoscendo il buio trovano qualcosa di splendente, capace di portarli fuori.
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Cosa possono fare la poesia e i poeti per loro?
I grandi poeti che di questo hanno scritto, o quelli che abbiano il dono di trasmettere questa natura della poesia, possono insegnargli che scrivere è un grande metodo fatto di attenzione instancabile e tensione a un senso profondo: il piccolo miracolo di una parola che all’improvviso diventa una mappa di simboli da seguire e ci rivela qualcosa di inaspettato. I poeti possono insegnare questo: la fiducia nel simbolo, il demone di una perfezione che non diventa perfezionismo ma ricerca di una verità, e l’intuizione di un’alterità. La poesia nella sua radice più antica è arte della metamorfosi, chi inizia a scrivere presto scopre che trasforma in bellezza e in conoscenza tutto ciò che la attraversa.
Nell’introduzione, intitolata paradigmaticamente Entrare nel bosco, lei pone alla base della poesia due caratteristiche: fisicità («La poesia è fisica quanto le lacrime o una risata») e la capacità di dire la verità in modo obliquo. In che modo questo può aiutare nello stabilire un rapporto con i ragazzi?
La poesia porta in sé una natura primitiva, che nella parola cerca una somiglianza e una capacità quasi magica di nominare. Dico che è fisica perché come le lacrime o una risata è una reazione all’urto della realtà, e perché è fatta di ritmo, come il respiro, il battito del cuore, come tutto il nostro corpo. Che la poesia dica la verità in modo obliquo lo hanno detto Emily Dickinson e Seamus Heaney, non è immediato comprenderlo, ma io lo dico subito anche ai bambini, e loro sentono che in questa obliquità c’è la libertà che la poesia gli offre, ma che in questa verità c' è una responsabilità per cui vale la pena di fare sul serio. Il rapporto con i ragazzi nasce inevitabile in questa serietà, da subito dico loro che un laboratorio di poesia è come una caccia in cui tutti siamo insieme ma anche soli, ognuno di fronte alla sua storia, alle sue regole da riconoscere. Anche un insegnante può usare questo strumento: l’obliquità della poesia, con la sua materia fatta di simboli, similitudini, metafore, è ciò che lascia una radice inviolata di segreto, se non pretende di spiegare tutto permette di dire l’indicibile.
In Domare il drago racconta la sua esperienza nella gestione di un Laboratorio di poesia dedicato ai ragazzi. Qual è il loro rapporto con la poesia prima di iniziare le sessioni di laboratorio? E in che modo l’avvicinamento alla poesia (o il consolidamento del loro rapportarsi a questa) ha inciso positivamente sulle loro vite?
In Domare il drago sono raccolte esperienze legate a diversi laboratori: pur basandosi sullo stesso metodo, i miei corsi possono avere declinazioni molto diverse. Ragazzi di diverse età e di diverse scuole, dal classico al professionale, partecipano volontariamente al laboratorio pomeridiano che tengo in un liceo, il più delle volte perché già scrivono, spesso non proprio poesie, ma qualcosa che loro stessi non definiscono. Si iscrivono anche soltanto per avere ascoltato al reading finale chi ha già partecipato. Capita che vengano al laboratorio ragazzi che non scrivono ancora, ma che sentono l’ansia indistinta di qualcosa da dire; c’è una cosa che ripeto identica ogni anno, spesso è questa sola frase che li porta ad iscriversi: «Per quanto sia piccola la vostra verità, ciò che vi fa soffrire o vi rende felici oggi, ha la massima dignità di essere detto nel modo più perfetto». La generazione dei nati intorno al Duemila è straordinariamente profonda, ma non lo mostra a tutti, esige un prezzo di sincerità, si apre se si accorge che il suo presente è amato. Questo è il punto chiave anche nei laboratori in cui la partecipazione non è volontaria; i ragazzi di un centro di formazione professionale per un anno si sono ritrovati a fare laboratorio di poesia alle otto del lunedì mattina, entravo io in classe con il prof di italiano. Le ragazze ricoverate in un reparto di disturbi del comportamento alimentare non avevano scelto di fare poesia, né i ragazzi che ogni pomeriggio erano stati obbligati dai servizi sociali a frequentare un centro per adolescenti, e ogni volta qualcosa si è sciolto, le parole sono arrivate meravigliose e terribili. Quelle ragazze in ospedale alla fine volevano fare un piccolo libro, che rimanesse per chi dopo di loro avrebbe abitato quelle stanze.
Io porto ovunque la stessa pretesa di verità, e non chiedo mai se leggono, se la poesia studiata a scuola gli piace, so per certo che alla fine tutti quelli che sono venuti volontariamente diventeranno lettori, e anche alcuni degli altri. Accadrà perché scopriranno che la poesia può avere profondamente a che fare con la loro vita, svelarla, e qualche volta perfino difenderli da se stessi.
La finalità, o meglio: una delle finalità del suo laboratorio è quella di «dare forma alle emozioni nascoste». Quali sono le emozioni con cui i ragazzi hanno fatto i conti con maggiore difficoltà e quali sono le ragioni del loro essere nascoste?
Si potrebbero chiamare emozioni nascoste oppure ''cose senza nome'', nel libro io più spesso le chiamo ''nodi'', non ce n’è uno più difficile da affrontare, tutto dipende da quanto siamo pronti a farlo. Toccare un nodo, anche attraverso la poesia, è calare le mani su qualcosa di segreto: il grande argomento della nostra vita che spesso noi stessi nascondiamo. Qualcuno quando ha una ferita non fa altro che tormentarla, qualcun altro ha paura anche solo di vederla, e non dipende da quanto sia profonda. I ragazzi nel mio libro affrontano con la poesia le ferite più diverse, da quelle più lievi e legate al nostro tempo, in cui ogni relazione è un filo sottile che continuamente si spezza, fino a quelle più grandi e difficili da decifrare. Alcuni di loro hanno attraversato la perdita di qualcuno, la perdita di ogni controllo e perfino il desiderio o la paura di morire. Non sono ragazzi fragili, sono i più potenti esempi. Tutti noi abbiamo una quantità di cose nascoste, un angolo cavo che continuamente dimentichiamo e lasciamo in silenzio, non ci sono ragioni per spiegarlo, è la vita che ci genera addosso questo inchiostro nero di cose non dette e non guardate: è una dinamica di amore e di paura, di presenza e di assenza, di cui l’uomo è composto e di cui la poesia parla da sempre, a qualunque età.
Il metodo dei sette sì è anche una proposta operativa. Quanto conta oggi l’assertività e quanto può essere importante proporla ai ragazzi come un valore?
Sono sette sì da dire alla poesia, dal silenzio in cui la parola poetica può nascere, fino alla forma compiuta di un piccolo manoscritto. Il metodo non si rivolge soltanto ai ragazzi, ma a chiunque voglia provare a conoscersi scrivendo. I ragazzi con le loro storie e i loro versi ne diventano piccole guide, ma ho usato anche fiabe, miti greci, e le parole con cui i grandi poeti di ogni tempo hanno raccontato i lati più misteriosi della scrittura.
A ognuno di questi sette passi corrisponde una resistenza, spesso il disagio che avvertiamo è proprio il segnale che siamo sulla strada giusta, ogni sì è un atto di fiducia ma anche una piccola lotta con se stessi. I ragazzi che incontro vivono continuamente proiettati verso la prestazione, il punteggio, l’obiettivo che rischiano di non raggiungere. Quello che io chiedo invece impone un tempo diverso, in cui al centro c’è il loro tempo disuguale, la regola che possono darsi per compiere ogni passo, e soprattutto la passione di ogni singola scelta. Io credo che la poesia possa prendersi la responsabilità di essere assertiva, la grande poesia non ha mai avuto paura di esserlo. E anche nella vita, in generale, credo che dire sì alle cose le metta in movimento, sia parte di quell’arte della metamorfosi che solo accogliendo qualcosa ci permette di cambiare.
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Le prime tre tappe del metodo sono un sì al silenzio, alla parola e all’altro. In che misura questo può essere considerato una preparazione all’ascolto e all’apertura?
Non è una preparazione, questo modo di scrivere è da subito qualcosa che apre botole e porte, noi stessi diventiamo un canale aperto. Il primo sì al silenzio è fatto di ascolto, in quel particolare silenzio possiamo sentire ciò che nella nostra vita risuona. Ci sono alcuni semplici strumenti per attivare questo udito nuovo, ed è qui che la parola inizia a prendere forma. La parola nasce come la perla nell’ostrica, quando incontra qualcosa che entra nel suo buio. Il terzo sì ci porta a riconoscere il nostro vero ''tu'': quel destinatario che nella scrittura spesso non è manifesto; è quasi sempre qualcuno che ci provoca, una presenza o un’assenza che non ci lascia in pace. Domare il drago è una piccola discesa al centro di se stessi, la scoperta di un io continuamente mosso dall’incontro con l’altro e con l’oltre. Questo avviene nella scrittura, ma il miracolo è che avviene anche nella vita, ogni laboratorio me lo dimostra: i ragazzi, che all’inizio non si conoscevano e si vergognavano a leggere le proprie poesie, finiscono per ascoltarsi, l’uno portato dalla voce dell’altro, diventano una strana compagnia, come se spartissero lo stesso segreto.
Per la prima foto, copyright: Taylor Ann Wright su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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