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Ungheria in bianco e nero. Le apocalissi di László Krasznahorkai e Béla Tarr

Béla TarrArticolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 1/2014.

Il 2013 è stato un anno di tardivo ma dovuto riconoscimento per due grandi artisti ungheresi già legati da scurissime convergenze: il romanziere e sceneggiatore László Krasznahorkai (1954) e il regista Béla Tarr (1955), il duo penna-cinepresa più inscindibile e necessario della filmografia est-europea insieme al tandem Jiří Menzel/Bohumil Hrabal, ai quali stanno come l’antica maschera tragica al sogghigno bonario della satira.

Nei mesi in cui l’editore Zandonai, segnando il debutto nel nostro Paese di uno dei maggiori autori magiari viventi, dava alle stampe un’improcrastinabile edizione italiana di Melancolia della resistenza [Az ellenállás melankóliája], emblematicamente datato 1989, la sempre brillante collana “Directors’ Cuts” di Wallflower/Columbia University Press regalava ai cinefili la prima vera e propria monografia su Béla Tarr, che dal romanzo succitato ha tratto uno dei suoi film più affascinanti, Werckmeister harmóniák (Le armonie di Werckmeister, 2000). Firmato da András Bálint Kovács dell’università di Budapest, che per l’occasione si esprime in inglese, il volumetto segna un deciso passo avanti, sul piano analitico, rispetto alle proposte interpretative avanzate finora in sedi meno specialistiche, non esclusi il piccolo saggio di Jacques Rancière (Béla Tarr, le temps d’après, 2011) e le precoci quanto acute intuizioni di Susan Sontag.

Contemporaneamente, quasi a fare da controsoggetto nel medium più effimero della stampa, il giovane ma ambizioso magazine statunitense «Music & Literature» dedicava ai nostri un corposo monografico, il n. 2, con racconti inediti di Krasznahorkai e approfondimenti sulla produzione di entrambi, mentre la rivista specializzata spagnola «Shangrila» riservava un intero fascicolo, il n. 17, al cinema di Béla Tarr. Un sorprendente chiasmo che suggella anni di (relativa) distrazione, riportando all’attenzione del pubblico due autori di statura mondiale; anni nei quali Tarr ha scelto di appendere la cinepresa al chiodo, mentre Krasznahorkai, già apprezzato in America e in Francia, si faceva lentamente strada nel canone letterario. (Nel 2013, per citare una terza coppia di uscite a tema, Seiobo There Below [Seiobo járt odalent] vede la luce in lingua inglese e il pur non recentissimo Guerre et guerre [Háború és háború], già acquistato da Zandonai, viene dato alle stampe in Francia).

Questo inatteso interesse ritrovato per l’arte dei due giganti ungheresi, emersi nel crepuscolo degli anni Ottanta dalle macerie del blocco sovietico e da quelle macerie sfregiati a vita, è tanto più sorprendente se pensiamo a quanto ermetico, difficile, in parte addirittura ingrato sia il linguaggio artistico dell’uno e dell’altro, una durezza che non resta confinata ai contenuti, ma come un’irradiazione atomica intacca il DNA della forma, portandola al delirio e imprimendole fantastiche circonvoluzioni. Oscuro e tetramente onirico Krasznahorkai, con la sua lingua minuziosa fino alla pedanteria, la sua torrenziale affabulazione a cascata che può far pensare a Thomas Bernhard, la sua metafisica del disfacimento, la sua frase interminabile e ultra-articolata che richiama il nouveau roman di Claude Simon, pur risultando nel dettato più naturale e fruibile. Cupissimo Béla Tarr, con il suo eterno bianco e nero di beton e catrame, la sua predilezione per il fango e la pioggia, lo sguardo lentissimo e impassibile della sua cinepresa, la dilatazione dei suoi ritmi narrativi, fino all’eccesso delle 7 ore di Sátántangó.

Proprio con Sátántangó(Il tango di Satana, 1994), ispirato all’omonimo romanzo del 1985, ha inizio la collaborazione tra i due coetanei, che per quasi due decenni avanzeranno di pari passo, di libro in film. Krasznahorkai porta in dote al sodalizio un universo guasto consegnato a un lentissimo, inesorabile sfacelo e una scrittura formata sui testi dei grandi esploratori del non-senso («Quando non sto leggendo Kafka, rifletto su Kafka. Quando non sto riflettendo su Kafka, mi manca rifletterci sopra», confida alla «White Review» in un’intervista rilasciata – ancora una volta – nel 2013). L’outsider Béla Tarr, partito da un’artigianale reinvenzione del cinéma vérité in chiave antisovietica (Nido familiare [Családi tüzfészek], 1974), approda ben presto a una maniera fortemente personale che sublima ogni contenuto in stile, facendo però dello stile – più che un fine in se stesso – un grimaldello che serve a scardinare l’apparenza dei luoghi, dei volti e delle situazioni per lasciarne colare, come un umore denso e nerastro, la metafisica e incurabile malinconia.

Sátántangó è l’affresco monumentale in cui questa poetica comune, o in ogni caso affine, può dispiegarsi senza barriere. Arcana parabola senza morale ambientata in un sovchoz ungherese allo sbando nei mesi di agonia del socialismo reale, la vicenda del film si risolve senza alcuna mediazione – e grazie al suo estremo iperrealismo, piuttosto che malgrado esso – in un disperato dramma cosmico ed esistenziale, una sacra rappresentazione sul crinale tra il tempo e l’eternità dove sfila per l’ultima volta, a capo chino, un’umanità per sempre irredenta. La macchina da presa di Tarr, che ricerca con famelica ossessione gli alberi spogli, i sili arrugginiti, i cieli bassi, gli intonaci lebbrosi, le debolezze fisiche e mentali, predilige inquadrature dalla vertiginosa profondità di campo, pause dalla catatonica fissità, estenuanti carrellate che violentano il continuum di senso della percezione umana perché trattano cose, animali e persone con la stessa meccanica indifferenza, snobbando i più elementari tropi del linguaggio filmico standard.

András Bálint Kovács, che ama suffragare le proprie intuizioni con l’analisi quantitativa, ha pagine brillanti sull’impiego e l’evoluzione del piano-sequenza nel cinema di Béla Tarr, che più di qualunque altro autore (con la possibile eccezione di Aleksandr Sokurov) ha condotto alle estreme conseguenze questo dispositivo registico, facendone la propria firma di autore. Kovács individua a questo riguardo due macro-tradizioni di riferimento: l’inquadratura lunga dalla logica autonoma e indipendente, sulla falsariga Tarkovskij-Godard, e il modello del piano-sequenza incernierato ai movimenti del personaggio e al ritmo diegetico, esemplificato da Antonioni e da Miklós Jancsó, il più immediato e ovvio punto di riferimento nel campo del cinema ungherese.

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László KrasznahorkaiProprio nel passaggio dall’uno all’altro paradigma (evoluzione fluida, tuttavia, più che lineare) si riassume lo scarto stilistico tra Sátántangó e Le armonie di Werckmeister (2000), l’altro vertice della partnership con Krasznahorkai, tratto dai capitoli centrali del romanzo che l’editore Zandonai – il cui catalogo è ormai una certezza – ha portato ai lettori italiani nell’annus mirabilis del 2013: La melancolia della resistenza. Nel momento stesso in cui la tecnica del “long take” si umanizza, ritrovando un equilibrio per quanto distorto tra il nostro sguardo e la vita interiore del personaggio, tuttavia, la durata si estremizza ancora: se in Sátántangónon esistono sequenze sotto i due minuti, anche nel caso dei primissimi piani (emblematico quello di Estike, la bambina suicida), nel film del 2000, a fronte di un arco narrativo di due ore e mezza, le scene sono poco più di una trentina. Il lavoro del montaggio è interamente risolto nella coreografia di interminabili, ipnotiche riprese che frugano gli spazi e i volti con la lentezza di un ultimo addio.

Anche La melancolia della resistenza, come Sátántangó, è una sorta di apologo affacciato sul nulla, un’allegoria che strada facendo – forse per stanchezza – ha smarrito la propria chiave. Spogliati di ogni psicologia riconducibile a motivazioni soggettive, i personaggi di Krasznahorkai assumono una statura epica, si trasformano in figure eternamente stagliate contro il loro destino, come caratteri di Shakespeare o Racine.

János Valuska, il giovane puro-folle, magnificamente interpretato da Lars Rudolph nel film, percorre senza posa le strade notturne di una cittadina senza nome, meno per svolgere il mestiere di postino che gli è stato pietosamente affidato che per mimare, con i suoi passi, l’eterno miracolo che occupa ogni istante dei suoi pensieri di semplice: la maestosa perfezione del sistema solare, il ritmo cosmico dell’alba e del tramonto, il meccanismo divino degli astri incatenati a orbite immutabili. Valuska è l’uomo fuori dalla storia, un angelo degradato ignaro del tempo e del divenire, che nelle sfere sublunari è sinonimo di sfascio e corruzione.

La sua controparte è l’anziano musicista e musicologo György Eszter, che János serve e protegge come una sorta di scudiero, un Sancho Panza ungherese non meno ignaro ma tuttavia rispettoso dei tormenti del suo eccentrico padrone. Ex direttore del conservatorio, Eszter ha voltato le spalle al mondo, e in fuga dall’idiozia si è barricato in casa, dove attende la morte trincerato in un disprezzo che funge da corazza contro il caos, un po’ come il temperamento equabile della scala evocato nel titolo del film (metafora della storia fabbricata in coscienza, ovvero del socialismo) rappresenta il patetico e illusorio tentativo dell’essere umano di proiettare un ordine astratto e razionale sul disordine intrinseco del mondo, consegnato ab origine alle forze di un’eterna disgregazione.

Quando in città, annunciato da bizzarri manifesti e inspiegabili folle che intasano i treni, giunge arrancando un colossale rimorchio di lamiera contenente una balena imbalsamata e una misteriosa attrazione detta “Il Principe” (o “Il Duca”, in ungherese la parola è la stessa), la tragedia da sempre incombente, precipitata dall’arrivo dello strano cavallo di Troia, si trasforma in un’orgia di violenza e vandalismo che inghiotte i destini dei protagonisti. Ancora una volta, l’allusione politica, seppure evidente in filigrana, è sottoposta a un tale processo di anamorfosi da risolversi, più che in un simbolo, in un geroglifico.

Condotta nella forma di un estenuante e puntigliosissimo discorso indiretto libero, quanto di meno cinematografico esista, la narrazione di Krasznahorkai si rapprende nella sua controparte filmica intorno alle grandi e solenni immagini emblematiche del libro (prime tra tutte, la grande carcassa del cetaceo, la piazza gremita dei capannelli di brutali forestieri raccoltisi intorno ai falò obbedendo a un arcano richiamo di sangue, la mattanza in ospedale). È come se Tarr – assistito dall’autore – fosse riuscito a estrarre la radice quadrata del romanzo, ricreandolo fedelmente con altri mezzi a partire dal proprio specifico immaginario, in un altro medium, invece di indulgere alla pratica tanto diffusa quanto pateticamente letterale dell’“adattamento” (esistono due soli tipi di adattamento: quelli in cui il regista “brucia” per sempre il romanzo, come fa Hitchcock, e quelli in cui si rompe le ossa).

Un cenno merita anche il commento musicale, che nella sua scarna semplicità si fonde in modo indissolubile alla grana espressionistica e bituminosa del bianco e nero di Tarr. L’autore, di formazione non classica, èMihályVig, uno dei collaboratori-feticcio del regista, che inSátántangórecitava la parte inquietante del Cristo-Giuda Irimiás, oltre a firmare una laconica e ossessionante colonna sonora a base di fisarmonica (sintetizzata). Ne Le armonie di Werckmeister, Vig si avvicina agli stilemi del minimalismo sacro di area baltica, un tipo di scrittura che non sempre convince nelle sue incarnazioni da concerto, ma che qui riesce a esaltare in modo addirittura toccante le parti più mistiche di János, come l’incontro con la balena o l’indimenticabile sequenza, così ricca di struggenti sottintesi, nella quale il postino descrive il sistema solare a un gruppo di operai ubriachi servendosi dei loro corpi, creaturalmente imperfetti, per mimare la divina perfezione del cosmo.

Nell’anemico mondo artistico e letterario del nostro tempo, abitato da ragazzi per bene e drogato di buoni sentimenti, Krasznahorkai e Tarr fanno figura di barbari, grossi magiari arruffati emersi dal fondo di qualche fattoria collettiva; eppure, oltre a portare inscritta come una cicatrice la tragedia del collasso, che da politico diventa in loro metafisico, i due ungheresi – come i loro antenati dei primi secoli dopo Cristo – incarnano un’eterna, aliena, vigorosa giovinezza che a intervalli viene dai margini dell’impero a violentare e fecondare con il vento di pianure lontane le forme ormai esauste della cultura europea.


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