Una voce per Sylvia Plath, «la ragazza che voleva scrivere»
Sylvia incanta. Sylvia rapisce. Sylvia, toglie il fiato. Sylvia, a volte, lascia una strana sensazione nel cuore e nella pancia, come un ronzio, un eco lontano, un ricordo di un disagio insistente e permanente che tutti possono vedere, eppure tutti scelgono di ignorare.
Sylvia Plath. Le api sono tutte donne è il titolo dello straordinario romanzo di Antonella Grandicelli pubblicato da Morellini Editore lo scorso 27 gennaio. Il volume fa parte della collana “Femminile Singolare” diretta da Sara Rattaro; una collana che vuole dare spazio, e soprattutto voce, a figure femminili spesso oscurate dalle loro più “ingombranti” controparti maschili.
Non è il primo romanzo di Grandicelli. Dopo un fortunato esordio nel 2016 con un romanzo noir – Le ali dell’angelo –, nel 2021 pubblica Il respiro dell’alba. Un caso per Vassallo e Martines unitamente a una serie di racconti. E ora Sylvia. Non è semplice dare voce e vita a Sylvia Plath, talentuosa poetessa americana morta prematuramente a soli trent’anni nel 1963. Autrice di numerose raccolte poetiche, racconti in prosa e per bambini, tra le sue opere spicca La campana di vetro (The Bell Jar in lingua originale), un romanzo semiautobiografico che ci racconta la sua discesa verso l’oblio e mette in luce tutta la fragilità e, allo stesso tempo, tutta la grande determinazione di questa autrice troppo spesso dimenticata.
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Definire Sylvia Plath. Le api sono tutte donne una semplice “autobiografia” sarebbe profondamente ingiusto e riduttivo. Innanzitutto, il libro non segue un tradizionale ordine cronologico come ci si aspetterebbe da una biografia tradizionale. La vita di Sylvia, raccontata in prima persona, si snoda attorno alle sue tre principali “cadute”, i momenti cruciali che l’hanno portata a togliersi la vita come apprendiamo dall’incipit di questo nostro romanzo, forse uno dei più potenti degli ultimi anni. «Mi chiamo Sylvia e ho la testa del forno», lo leggiamo subito, alla fine della prima pagina. La curiosità del lettore si accende immediatamente: cosa ha ucciso Sylvia?
Tre cadute, dicevamo, tre “nodi” fondamentali tra loro intrecciati che possono essere riassunti in: famiglia, amore e ambizione. La famiglia di Sylvia potrebbe essere potenzialmente felice, senonché il padre muore quando lei è ancora piccolissima. La pressione di un modello come quello della madre, dedita alla famiglia e sempre pronta al sacrificio, e la mancanza di una figura paterna saranno per Sylvia fonte di rimpianto, tristezza e tormento.
Quando incontra Ted Hughes per Sylvia è la svolta. Il loro amore travolgente la consuma e la inghiotte. Ted diventa il centro del suo universo, ma presto da stella luminosa si trasforma in buco nero. Sylvia ne viene progressivamente inghiottita, tanto da arrivare a trascurare sé stessa e il proprio talento per un uomo fondamentalmente egoista e spesso opportunista. Sylvia lo sente che qualcosa non va, ma il dolore più grande sarà scoprire il tradimento di lui dopo la nascita del loro secondo figlio. Oggi parleremmo certamente di amore tossico: un amore che da linfa vitale si trasforma presto in veleno.
Passeggiando per Londra, dopo la separazione, Sylvia si sentirà finalmente libera da tanto dolore:
«Non ero la signora Hughes, ero la signora Plath […] Mi ero sentita invadere da un senso di gioia infantile, da un solletico sottopelle come un sole primaverile che ti sfiora in un giorno d’aprile e ti apre i pori alla novità. Era la metà di dicembre, ma io ero pronta alla rinascita. Potevo tornare ad essere quello che volevo, la ragazza che voleva scrivere. Potevo riappropriarmi del mio nome e di me stessa. In fondo solo io avevo abdicato da me per lasciare trono e scettro a Ted, per farlo il re Mida dei miei giorni, il dio Pan delle mie notti. Ma il re era nudo e io non ne avevo più bisogno. Io volevo tornare ad essere Sylvia Plath».
Ma allora perché Sylvia decide di togliersi la vita, dopo questo momento di rinnovata speranza? Perché è una speranza effimera. Ogni volta che Sylvia cade, smarrisce una parte di sé. L’altro suo grande nemico-alleato è l’ambizione, il suo orgoglio. Sylvia vuole essere grande, non accetta l’imperfezione e non accetta la sconfitta. Il primo tentativo di suicidio, infatti, risale al 26 agosto 1953, quando, dopo un fallimentare “stage” formativo a New York, Sylvia sentirà di aver perso la strada, di non saper più cosa fare. Un disagio giovanile di cui nessuno sembra accorgersi e che pian piano si radicalizza nell’animo della giovane poetessa. Non si libererà mai dal senso di inadeguatezza e non riuscirà mai a trovare un posto nel suo mondo che le consenta di essere ciò che vuole essere, perché Sylvia, sostanzialmente, vuole vivere per e della sua Arte, solo che il mondo non è ancora pronto.
Sylvia si annulla, dunque, si fonde con tutto ciò che ama; che sia il marito, i figli o la poesia. Ma mentre nei primi due casi il risultato è nocivo, nel caso della poesia avviene tutt’altro, perché quando Sylvia scrive, risplende. Non importa che parli di dolore, di morte o di qualsiasi altro elemento negativo, Sylvia vive tra le pagine, l’inchiostro e le sue parole. Sono parole vibranti, a volte taglienti e che si attaccano come uncini a chiunque si avventuri in una loro lettura. Capiamo, allora, perché Sylvia non sarebbe mai potuta sopravvivere nel suo mondo che la voleva donna e madre perfetta. Proprio come Grandicelli fa dire ad Anne Sexton, amica – rivale poetessa di Sylvia, a metà romanzo:
«Vedi, Sylvia, quelle come noi non tentano di morire, tentano di vivere. La nostra è una lotta in questo mondo che ci vuole schiacciate, appiattite, con un sorriso per aver ottenuto un bucato bianco o una perfetta conserva fatta in casa. Io non lo voglio questo, non lo voglio».
Antonella Grandicelli qui fa una vera magia: riesce a riprodurre in prosa lo stesso grado di complessità e coinvolgimento emotivo della lirica di Sylvia Plath. Non riusciamo a smettere di leggere e non riusciamo nemmeno, pur sapendo bene come va a finire, a desiderare un epilogo diverso. Così come accade per Virginia Woolf, ad esempio, rimane in noi la voglia di urlare “fermati, andrà tutto bene. Il mondo ha ancora tanto bisogno di qualcuno che parli di lui come sai fare tu”. Ci sta stretta, insomma, questa uscita di scena e se è così una buona parte del merito al superbo lavoro di Grandicelli.
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Sylvia Plath. Le api sono tutte donne è un piccolo tesoro da custodire e centellinare, perché il rischio più grande è venirne sopraffatti. È un po’ come fare “binge watching”, in fin dei conti, ossia come quando guardiamo un episodio dopo l’altro della nostra serie tv preferita per tutta la notte e al mattino ci ritroviamo un po’ storditi e con l’amaro in bocca perché è tutto finito. Centelliniamo, dunque, se possiamo, ma non lasciamoci sfuggire questo piccolo grande romanzo.
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