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Una storia sbagliata. “La seconda porta” di Raul Montanari

Una storia sbagliata. “La seconda porta” di Raul MontanariLa seconda porta è il nuovo romanzo di Raul Montanari pubblicato da Baldini+Castoldi nel 2019.

Milo Molteni fa del suo lavoro di pubblicitario una battaglia sociale. Milo è fortemente attratto dalle donne: a malincuore si è separato da Elisa e ora ha conosciuto Vera della quale si è innamorato. Ha da poco acquistato l’appartamento sopra il suo, dopo la morte dei proprietari, gli anziani Mattei. Una porta rossa collega l’appartamento dei Mattei al locale della spazzatura al piano terra: attraverso questo passaggio, il ragazzino egiziano Adam s’introdurrà nell’appartamento e darà avvio a una vicenda intricata, carica di colpi di scena e commovente, che cambierà la vita del protagonista…

 

«A me risulta che l’e-book non abbia spostato di un millimetro il mercato del libro. Magari la crisi del libro fosse colpa dell’e-book, che qui da noi vende pochissimo. L’e-book, se mai decollasse in Italia, sarebbe la salvezza dell’editoria.» Milo Molteni e Pietro Carminati sono i fondatori dell’agenzia pubblicitaria Moca e il romanzo, oltre a raccontare le vicende legate alla vita dei due soci, ritratti soprattutto attraverso i loro dialoghi e le loro reazioni emotive, descrive il mondo della pubblicità, proponendo delle vere e proprie ricette da manuale: ma ci racconti in breve il suo parere sulla questione annosa dell’e-book supposto nemico del cartaceo.

In questo caso il personaggio di Milo Molteni rappresenta perfettamente il mio punto di vista, cosa che, come lei sa, non è sempre scontata. Io sono entrato ormai nell’età in cui viene spontaneo coltivare delle nostalgie, ma al di là delle solite amenità sull’odore della carta e sul piacere sensuale di sfogliarla non ho mai sentito un solo argomento sensato contro la lettura in formato elettronico. Anzitutto la diatriba fra libro cartaceo ed e-book è una cosa vecchia di almeno dieci anni, superata dai fatti: l’e-book non è riuscito a soppiantare il libro di carta, che anzi sta raccogliendo nuovi consensi soprattutto fra i lettori giovani, un fenomeno simile alla rimonta del vinile rispetto al cd. In secondo luogo, quella di cui dovremmo preoccuparci è invece la crisi costante e progressiva della lettura. Perdiamo lettori ogni anno, e a questo punto che le persone leggano libri di carta o libri elettronici o ascoltino audiolibri che differenza fa? Ringraziamoli fin tanto che leggono!

 

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«Non puoi sapere. Un italiano non può sapere, per sapere devi vivere», sono le parole di Adam, il ragazzino egiziano ospite della cooperativa per l’assistenza ai migranti HoSpes, gestita dall’amico Luca Pandoro e per il quale Milo sta lavorando al payoff pubblicitario. Adam ha un «un viso che sembrava disegnato» e appare nella vita di Milo squarciandone il velo dell’illusione: Milo tocca con mano tutti i temi sociali ai quali lavora, confrontandosi con la sofferenza reale dei profughi. La storia di Adam e del fratello Tariq è commovente, fatta di tenerezza, e anche colma di peripezie e tremende bugie: come ha lavorato per non far scadere la storia nel cliché di una retorica propaganda? E rendere Adam una splendida figura umana e non una macchietta anonima?

Facile a dirsi, forse meno facile da realizzare: ho evitato ogni tentazione di cadere nella trappola di ciò che, con una parola orribile, viene chiamato buonismo. Non mi interessava dare una rappresentazione stereotipata del migrante visto solo come una vittima, cosa che considero speculare alla sua rappresentazione come una minaccia. Il tema etico è centrale nelle cose che scrivo e in questo libro lo è in modo particolare, ma nella realtà il bene e il male non sono mai distribuiti in modo meccanico, manicheo, tutto da una parte e tutto dall’altra. Adam è anzitutto un animale spaventato e reagisce come farebbe chiunque di noi: si difende con ogni mezzo, cerca di salvarsi anche attraverso menzogne e tradimenti. È proprio grazie a questa rappresentazione realistica che il sentimento che comunque nasce fra lui e Milo acquista credibilità e diventa emozionante. Perché è l’incontro fra due persone vere: Adam è appunto un bugiardo ma è anche un ragazzo tenerissimo, sensibile, che quando fa qualcosa di sbagliato non si autoassolve; Milo è un groviglio di contraddizioni, al tempo stesso un intellettuale progressista e un borghese avvitato su se stesso e sul proprio egoismo, contro quale deve combattere la sua battaglia più grande.

 

«Forse all’avvicinarsi della morte gli uomini – tutti gli uomini – entravano in una sorta di raccoglimento interiore, si ricongiungevano con un nocciolo segreto»: Milo è un personaggio complesso, ama perdersi nei boschi, capace di dolcezza, ama le donne, è attratto fortemente dalla fisicità di Vera, ma non resta indifferente alla bellezza maschile, per Adam nutre un toccante affetto paterno. Nonostante tutto, quella di Milo è un’esistenza solitaria prossima a una continua preghiera laica rivolta a un desiderato padre: come nasce Milo, come si riesce a creare un personaggio del genere che è proprio l’opposto del narcisista?

In Milo ho messo tanto di me stesso, dato che mi conosco capace di grandi slanci di generosità come di ripiegamenti meschini e utilitaristici. Ho cercato di farne un ritratto collettivo dell’universo progressista e di renderlo dinamico usando come detonatore la vicenda drammatica che viene raccontata nel libro. Milo si pone una domanda che riguarda tutti: è possibile fare del bene? Ha senso provarci, quando tutte le evidenze sembrerebbero rispondere: no? Lui è considerato addirittura un benefattore dell’umanità grazie alle sue campagne sociali, eppure nella vita privata non è stato in grado di fare del bene a una donna che per anni lo ha amato e che gli chiedeva solo di renderla madre, una cosa legittima e normale, una cosa “piccola”. Ecco, il rischio di essere piccoli nelle cose piccole e grandi in quelle grandi, specialmente quando le cose grandi sono gratis (come sposare una causa che non comporta nessun rischio e nessun sacrificio personale) è qualcosa che sento profondamente radicato nella nostra epoca. Al di là di tutto questo, credo che il lettore provi molta simpatia e molta immedesimazione verso Milo perché è un uomo intelligente, divertente e spietato con se stesso, che si racconta con onestà spogliandosi davanti al lettore.

Una storia sbagliata. “La seconda porta” di Raul Montanari

«Vivere d’acqua e di luce: che miracolo! Noi invece ci trascinavamo sulla terra, sbranandoci a vicenda». Il suo romanzo affronta il tema dell’emergenza migranti opponendo, e spiegando in brevi tratti, le due visioni contrapposte: conservatori vs progressisti. Nei suoi romanzi è sempre presente l’aspetto civile, il riconoscimento dei diritti dei più deboli. Lei riesce a farci scorgere, dietro la violenza di uno scafista, l’umanità presa in trappola e costretta a diventare crudele. «Gli altri sono sempre un mistero»: che ci può dire a proposito?

È vero. Preparando il libro ho fatto delle ricerche, come è normale in questi casi, e mi ha colpito il fatto che gli esperti con cui parlavo tendevano a distinguere in modo molto netto il trafficante dallo scafista. Il primo agisce da terra, in modo freddo, razionale, spesso crudele; il secondo non è sempre inquadrabile. Nel libro viene presentata una sorta di classificazione delle varie tipologie di scafista e viene introdotta un’idea che trovo perfettamente verosimile per chi abbia una minima conoscenza della natura umana: che all’ultimo anello della catena ci siano dei poveri disgraziati, che accettano di fare da kapò giusto perché è l’unico modo per pagarsi il viaggio. Spesso, al momento dello sbarco, i migranti non sono nemmeno in grado di dire se quella certa persona che gli viene indicata dai poliziotti era uno scafista o no, non solo perché hanno paura di possibili vendette ma perché quella persona a loro era sembrata solo un compagno di sventura.

 

«Quindi più arrivo preparato meno fatica faccio a capire chi è l’uomo che ho davanti. Almeno le due cose fondamentali: cosa desidera, di cosa ha paura»: sono le parole del detective Velardi, che appare senza farci sospettare nulla, figura quasi comica e inessenziale all’inizio, sarà determinante per lo svolgersi dell’intreccio. Mi viene da pensare che forse lo scrittore deve essere come Velardi: apparire in sordina e tenere con pudore le fila della narrazione cogliendo dei suoi personaggi desideri e paure. Che ne pensa?

Sono d’accordo al cento per cento. Il narratore vero si nasconde dietro i personaggi e la storia, come fa peraltro il drammaturgo; se ha delle cose da dire sulla vicenda, o sulla vita in generale, deve farle emergere dalla storia stessa, senza ridurre i personaggi a suoi portavoce come spesso si vede. Altra cosa è naturalmente una vera narrazione in prima persona con il protagonista che coincide dichiaratamente con l’autore, ma le confesso che questo è un modo di scrivere che mi interessa poco. E vedo con piacere che interessa poco anche ai lettori, tranne nel caso di personaggi pubblici già molto seguiti prima di scrivere (?) il loro libro.

 

«Aiutato a fare cosa? Lavori gratis come venire qui a portare via i mobili da questa bella casa che hai comprato, e in cambio mangiare la pizza? Studiare l’italiano per capire gli ordini dei padroni?»: sono le parole di Tariq, il fratello di Adam. Difficile condannare questo punto di vista: la letteratura può far capire le stupidaggini del suprematismo bianco?

La letteratura può fare poco, da sola, mentre può fare moltissimo se la vediamo nel complesso di tutto ciò che chiamiamo “narrazione”: a braccetto con il cinema, la fiction televisiva, il fumetto, il teatro, la letteratura può “persuadere senza persuadere”, ossia può comunicare contenuti importanti, come quello che lei propone, arrivando direttamente all’emotività del lettore. Un lettore può arroccarsi in una difesa razionale (o pseudorazionale) di una certa forma di egoismo sociale, ma la rappresentazione delle conseguenze tragiche che questo egoismo comporta nei confronti di chi è più debole ha ancora la capacità di colpire al cuore, di rendere visibile ciò che rimarrebbe invisibile se si giocasse tutta la partita solo sul piano del calcolo delle convenienze. 

 

«L’abbracciai stretta come se fosse tornata da un viaggio in un luogo lontano e pericoloso, e la tenni contro di me, a lungo. Ripensandoci ora, credo che quello sia stato il momento in cui mi innamorai di lei», ci s’innamora sempre della mancanza dell’altro, e all’altro si può dare solo la propria mancanza: che ruolo hanno l’amore e l’erotismo nella sua scrittura?

Quello che hanno nella vita: un ruolo centrale. L’episodio che lei cita è apparentemente secondario, nel romanzo, e invece è importantissimo e mi fa piacere che lei l’abbia colto. Milo e Vera sono già diventati intimi fisicamente, ma solo quando Milo vede la ragazza avere un’assenza, quella che lei stessa poi spiega come una piccola crisi di epilessia a cui va soggetta, la passione sessuale che provava per lei si allarga a un sentimento più complesso e più importante. Sono convinto che noi amiamo sempre nel dolore: che la sofferenza dell’altro è quel qualcosa in più che ci spinge irresistibilmente verso una persona, perché arricchisce di tenerezza e desiderio di protezione quella che all’inizio di un rapporto è spesso solo una spinta biologica, animalesca.

Una storia sbagliata. “La seconda porta” di Raul Montanari

«Mormorò il nome di suo fratello e una parola in arabo, due volte, con un tono che mi sembrò incredulo. Poi si coprì la faccia con le mani e cominciò a piangere»: è un passaggio forte del romanzo, ma non l’unico, in cui il protagonista è preso tra la compassione e la giustizia. Tra legge e desiderio. Lei riesce a sparire e i protagonisti emergono nella loro verità umana, anche personaggi secondari possiedono sfumature che non li rendono indifferenti: non ci sono buoni o cattivi, c’è solo letteratura. Come si arriva a lasciar vivere i personaggi più che l’ego giudicante dell’autore?

Penso che in questa domanda e nelle considerazioni che la precedono lei abbia dato una perfetta definizione di una premessa fondamentale per diventare narratori. Un narratore ha anzitutto una grandissima curiosità e apertura verso le vite degli altri, cosa che non è richiesta, per esempio, a un musicista o a un pittore. Il narratore deve costruire mondi credibili, personaggi e situazioni che evolvono per una logica interna, profondamente umana; dopodiché può guardarli dall’esterno, come primo lettore della sua stessa opera, e provare simpatie, antipatie, consenso, dissenso: emettere un giudizio, appunto. Quando il giudizio precede la composizione, la rovina senza rimedio. È così che nascono quei malvagi stereotipati, che sembra si presentino al lettore reggendo sopra la testa un cartello con la scritta: “Odiami!”.

 

«Non ho figli. Non c’è nessuno che ha bisogno di qualcosa da me», risponde Milo quando Adam gli chiede come mai continua ad aiutarlo. La vicenda di Adam mi ha commosso al punto, non lo nascondo, di farmi piangere. Un po’ come fa Milo nella visione dei video sui terroristi ceceni. C’è stata una forma di ricerca per la composizione del romanzo?

Sì, più che in altri romanzi. Soprattutto la parte su tutto ciò che riguarda la migrazione, nel senso concreto dell’intraprendere un viaggio, contrattare un prezzo, assoggettarsi a un potere, salire su una barca, arrivare in un posto. Crediamo di sapere queste cose perché ce le raccontano i telegiornali e invece non sappiamo quasi nulla dei dettagli che fanno davvero la differenza. Una circostanza curiosa e fortunata che mi è capitata è stata questa: la casa descritta nel romanzo è, con qualche modifica, il condominio in cui abito; ebbene, al primo piano di questo condominio vive una signora che lavora per il Comune di Milano e si occupa professionalmente di gestire gli aspetti burocratici della cosiddetta “seconda accoglienza”, ossia dell’assegnazione dei migranti minorenni ad associazioni che ne assumono la tutela. È stata la mia prima consulente.

 

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«Quando ci voltiamo a guardare il passato tutto ci pare acquistare una logica, un ritmo, un senso necessario che i fatti, man mano che accadono, non sembrano avere e forse non hanno per niente»: mi pare sia un ragionamento che si possa applicare a tutta la sua produzione letteraria e anche all’andamento del suo romanzo. Ritmo, stacchi e tagli simbolici tra scene ed emozioni contrastanti: lei padroneggia il ventaglio delle emozioni umane. In questo senso quanto conta la tecnica e quanto la sensibilità connaturata dell’autore?

Le dirò: io sono convinto che questa padronanza cresca man mano che cresce l’esperienza, e i libri pubblicati si accumulano. Sono convinto che quando un autore è giovane ha una grande facilità a inventare storie, ma non è ancora capace di raccontarle usando tutti gli strumenti di quel grande artigianato letterario che ci hanno consegnato due secoli e mezzo di romanzo; man mano che si pubblica il secondo, il terzo libro e i successivi, quello che si perde come freschezza dell’invenzione lo si compensa con la capacità di far vivere le idee, di lavorarle nel modo più efficace. Per fare un paragone con la musica rock: nei primi dischi i musicisti hanno in testa così tante melodie che addirittura le sprecano, mentre quando maturano diventano più abili negli arrangiamenti, nella strumentazione, nel dosaggio delle emozioni.

È anche una cosa piacevole da osservare, questa: almeno nel campo della composizione artistica, gli anni che passano arricchiscono invece di impoverire. Non si invecchia, si matura.


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Per la prima foto, copyright: humberto chavez su Unsplash.

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