Una storia di riscatto e di vendetta. “La regola del lupo” di Franco Vanni
A un anno dall’uscita in libreria del Caso Kellan (Baldini+Castoldi, 2018), Franco Vanni è tornato con un romanzo, La regola del lupo (pubblicato dallo stesso editore), che mette d’accordo tutti, detrattori e amanti del genere. Perché c’è il giallo, sì, ma c’è soprattutto una trama romanzesca, una storia di riscatto, di vendetta, di amicizie e amori. Il Caso Kellan è stato un libro importante: per la prima volta con quel romanzo ambientato a Milano e incentrato intorno all’omicidio del figlio del console americano Kellan Armstrong, facevano la loro apparizione sulla scena letteraria alcuni personaggi la cui immagine, a distanza di soli dodici mesi, mi sembra definita, limpida e affascinante quanto quella di Sherlock Holmes o Arsène Lupin. C’è il protagonista, Steno Molteni, giovane e intraprendente cronista del settimanale «La Notte», residente presso la stanza 301 dell’Albergo Villa Garibaldi. C’è l’impeccabile signor Barzini, il portiere dell’albergo in cui vive Steno, dal passato misterioso e dalle innumerevoli risorse. C’è Alberto, barbone grande amico di Steno e ora anche suo chauffeur, affettuoso e affidabile. C’è Scimmia, nome d’arte di Raffaele Cinà, agente scelto in polizia alla squadra Mobile, migliore amico di Steno nonché grande amatore (pare che le scandinave vadano pazze per lui).
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Dal punto di vista amoroso, all’inizio de La regola del lupo, a Steno, contrariamente a Scimmia, le cose non vanno così bene: l’avvenente avvocatessa Marta Ranieri, con la quale esce da qualche tempo, lo usa come «ginnastica di qualità», niente di più. E poi c’èla meravigliosa Sabine, fotografa del settimanale per cui scrive Steno: i due per un po’ si sono frequentati ma hanno rotto. Tuttavia, i veri protagonisti de La regola del lupo sono altri ed è intorno alle loro vicende che il giallo prende forma.
Siamo a Pescallo, una frazione di Bellagio, sul lago di Como. Quattro amici di vecchia data decidono di passare una notte in barca, per festeggiare i quarant’anni di uno di loro, Filippo Corti. Solo che, all’alba del giorno dopo, si sentono due colpi di pistola e, stando al racconto dei sopravvissuti, quando salgono in sovraccoperta trovano il cadavere del festeggiato disteso sul tender con un buco in fronte. La cronaca dell’omicidio al settimanale «La Notte» viene affidata a Steno Molteni, che della zona è originario. Incaricato delle indagini è invece il maresciallo Salvatore Cinà (padre di Scimmia e vecchio capo di Steno ai tempi del servizio militare), che largo spazio avrà nella narrazione. Ad assisterlo c’èl’appuntato Walter Sala, «un biondino discendente da chissà quante generazioni di bellagini», che per Cinà ha una sorta di venerazione. D’altra parte, è difficile trovare persone così integerrime come il maresciallo. Il caso sembra semplice e la soluzione quasi immediata, ma così non è: interrogatorio dopo interrogatorio, si scopre che i tre amici – Marco Michelini, Priscilla Odescalchi e Andrea Castiglioni – hanno tutti valide ragioni per avercela col defunto Filippo Corti. In fondo, Filippo ce l’ha messa tutta per farsi odiare…
Lo chiamavano il “Filippino”, a causa del mestiere di sua madre, che faceva la portinaia. Cresciuto senza padre in una scuola di Milano in cui un lavoro come quello della madre era considerato disdicevole, non ha avuto un’adolescenza facile, almeno finché un incontro, quello col rampollo di casa Castiglioni, Andrea, non ha dato una svolta alla sua vita. Da lì tutto cambiò e Filippo, non appena ne ebbe occasione, si sentì libero di prendersi tutto ciò che i suoi natali gli avevano negato, a scapito delle persone che gli volevano più bene.
Naturalmente, questo è solo l’inizio, ma credo che basti per dare un’idea del ventaglio di temi che Franco Vanni – navigato cronista del quotidiano «La Repubblica» nonché abile e ispirato romanziere (si ricordi il bell’esordio con Il clima ideale, Laurana 2015) – si è preso la briga di affrontare. Con una precisione ottocentesca scandaglia i sentimenti dei personaggi, i loro traumi più profondi, le loro esigenze latenti, mostrando fino a che punto la nostra storia dipenda da quelle degli altri. Il riscatto sociale, poi, è il tema portante, un tema oggi trattato poco e male, in tempi come i nostri in cui parlare di differenze di classe sembra sbagliato in partenza. Che lo si voglia o no, non solo il luogo in cui nasciamo, ma anche il quartiere o la famiglia all’interno della quale muoviamo i primi passi segnano il nostro percorso. E, sia chiaro, non si parla di destino o di predeterminazione. Si tratta semplicemente di un condizionamento ineludibile al quale, ai più, è concesso di reagire e di opporre resistenza. Il problema è che da quella posizione siamo condannati il più delle volte a vedere il mondo; ciò che ci sentiamo in diritto di fare dipende dal porto dal quale in origine abbiamo osservato il mare.A salvarci c’è solo la buona letteratura.
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Tutto questo ha a che fare con Filippo Corti, quell’enigmatico e affascinante personaggio che, morto ammazzato troppo presto, non ha avuto il tempo di prendere la parola. Attorno alla sua figura ruota tutto il nuovo romanzo di Franco Vanni.
E il lupo del titolo? Mi sentirei un verme se vi rovinassi il piacere di scoprire da soli cosa c’entra con la storia.
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