Una storia di dolore e rinascita. Intervista a Laura Imai Messina
Laura Imai Messina è venuta in Italia per presentare il suo romanzo Quel che affidiamo al vento (Piemme, 2020) da poco arrivato nelle librerie (qui trovate la recensione).
La scrittrice romana vive da molti anni in Giappone: attraverso la scrittura ci racconta le impressioni di un paese che rimane sempre piuttosto lontano da noi, e di cui sono in pochi a conoscere in modo approfondito la vita, le atmosfere e la mentalità dei suoi abitanti.
Del tremendo tsunami che nel marzo 2011 causò più di quindicimila morti, l’Occidente ricorda soprattutto l’incidente al reattore nucleare di Fukushima Dai-Ichi, per le implicazioni legate alle possibili contaminazioni: ma sono stati molti i luoghi devastati in quei giorni lungo le coste giapponesi, come la cittadina da cui provengono i protagonisti, un uomo e una donna che hanno perso entrambi delle persone care e che si trovano a fare i conti con l’elaborazione dei rispettivi lutti.
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Esiste da allora in Giappone un luogo speciale, difficile da raggiungere perché non segnalato sulle strade, dove le persone vanno a cercare conforto al proprio dolore: il giardino di Belle Gardia, dove qualcuno ha installato, in cima a una collina, una cabina telefonica contenente un vecchio telefono muto, col quale poter parlare con le persone scomparse. Attorno a questo luogo magico, divenuto col passare degli anni meta di pellegrini provenienti da tutto il Giappone e anche dall’estero, Laura Imai Messina ha costruito la storia di dolore e di rinascita dei suoi protagonisti.
Abbiamo potuto intervistare l’autrice a Milano, dove è venuta a presentare il romanzo.
Quello che colpisce per prima cosa, leggendo Quel che affidiamo al vento, è il modo giapponese di affrontare le tragedie. Siccome siamo anche noi un paese che è stato colpito da tante catastrofi, volevo sapere da lei, che vive tra i due paesi, quali sono a suo avviso le differenze o le similitudini che trova fra il nostro comportamento e quello giapponese di fronte a eventi così tragici.
Da parte giapponese, di fronte alle tragedie di questo tipo c’è per prima cosa l’impegno per trovare una soluzione pratica. Non si spreca del tempo per piangersi addosso, perché la priorità va alle soluzioni, dopo di che si potrà pensare al dolore. In fondo è come quando muore qualcuno: prima si organizza il funerale e poi si piange.
È un approccio pragmatico, il che non vuol dire che non si soffra, ma che si preferisce non mostrare la propria sofferenza. Non si deve sopraffare gli altri con il proprio dolore, anche se l’altro sa che la persona sta compiendo questo sforzo. Esiste comunque un’empatia per cui io so che tu soffri, anche se non lo dai a vedere.
In Italia, invece, si tende a esternare la sofferenza per ottenere l’empatia dell’altro, per essere consolati e abbracciati. Noi italiani abbiamo l’idea che se ci teniamo tutto dentro soffriamo di più, mentre in Giappone c’è uno scarto immane tra il privato e il pubblico. Non si manifestano pubblicamente i propri sentimenti, non ci si bacia o abbraccia in pubblico.
Questo lo vediamo anche nel romanzo, dove il rapporto tra i due protagonisti è descritto con estrema delicatezza, senza la minima allusione di tipo sessuale.
In quel caso c’è anche una resistenza a lasciarsi andare a una nuova relazione, una difficoltà a superare i propri lutti: Yui, la protagonista, non si sente in grado di pensare a un nuovo amore. Però la mancanza di atteggiamenti espliciti fa parte della cultura giapponese. In Giappone, del resto, capita che anche tra amici molto intimi si continui a usare un linguaggio formale, una sorta di “giapponese cortese”, anche dopo anni di conoscenza, cosa che per noi può essere difficile da capire. Anch’io ho impiegato anni a comprendere questa cosa, all’inizio quasi mi offendevo quando mio marito si rivolgeva a me in questo modo.
Come mai ha deciso di trasferirsi in Giappone?
In principio ci sono andata per approfondire la lingua. In seguito ho incontrato l’uomo che poi è diventato mio marito e quindi sono rimasta con lui, ma avevo già deciso per conto mio di stabilirmi lì: sarebbe pericoloso trasferirsi in un altro paese solo per amore!
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Una storia come questa del telefono per comunicare con i morti sarebbe pensabile anche in un altro paese, oppure poteva venire in mente solo a un giapponese?
Per come viene gestita, io me la immagino solo in Giappone, però bisogna dire che in quel luogo vanno anche tantissimi stranieri, per cui forse il mezzo ha una potenza che lo rende universale.
Quando ci sono stata, io sono rimasta molto colpita da come è stato costruito e mantenuto questo giardino, soprattutto dal fatto che per arrivarci è necessario avere tanto tempo perché è davvero difficile. Si trova vicino a una stazione che apparteneva a una cittadina distrutta dallo tsunami, che ormai è ridotta a un deserto, isolata dal mare da una barriera altissima e impressionante, costruita per evitare che il mare torni a devastare il territorio.
Di quello tsunami il mondo ricorda soltanto l’incidente di Fukushima, mentre tutto il resto è passato in secondo piano.
Sì, purtroppo è stato un disastro enorme, che ha causato tantissima sofferenza ai giapponesi, al di là del rischio nucleare. Oltre alle vittime immediate, che sono state più di quindicimila, bisogna ricordare che per anni c’è stato un altissimo numero di suicidi tra i sopravvissuti.
Molti capitoli del romanzo si chiudono con delle note, di cui lei fa un uso abbastanza curioso. Perché questa scelta?
Ho scritto degli intermezzi che mi servivano ad alleggerire un tema pesante. Sono in fondo delle divagazioni, in cui ho inserito gioia e ironia, e ho provato un gran gusto a scriverle.
La doppia identità italiana e giapponese quanto influenza la sua scrittura?
Tanto, direi. Col tempo mi sono creata una nuova identità in cui tutto è collegato, per cui non saprei più dire cosa c’è in me d’italiano e cosa di giapponese. Questo influenza parecchio il mio studio della lingua e la ricerca delle parole, perché ogni tanto le smarrisco: quando torno in Italia, il primo giorno ho sempre grandi difficoltà ad esprimermi. Con i miei figli parlo italiano, ma sono ancora molto piccoli, per cui il linguaggio che uso con loro è molto semplice, perciò posso dimenticarmi le parole più complesse. Però la lingua resta il luogo della mia italianità.
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Per la prima foto, copyright: Sora Sagano su Unsplash.
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