Una perenne insoddisfazione. “Gli iperborei” di Pietro Castellitto
Pietro Castellitto ha quasi trent’anni. È attore, sceneggiatore, regista e ha da pochi giorni esordito nella narrativa con il romanzo Gli iperborei edito da Bompiani. Come ha egli stesso dichiarato in una recente intervista, questo romanzo fa parte di una trilogia della gioventù iniziata con il film I predatori, che gli è valso il premio Orizzonti per la migliore sceneggiatura alla settantasettesima edizione della Mostra del cinema di Venezia e il David di Donatello e il Nastro d’Argento 2021 come migliore regista esordiente.
Gli iperborei è la storia di un gruppo di amici quasi trentenni che, pur possedendo tutto, si sentono in realtà in trappola, e nell’arco temporale in cui la storia si svolge, un’estate, tentano di trovare una via d’uscita all’interno di quel vortice che rischia di risucchiarli.
Iperborea fu una terra leggendaria, patria dell’antichissimo mitico popolo degli Iperborei, una terra lontanissima, situata al nord della Grecia. Questa regione era considerata un paese perfetto, illuminato dal sole per sei mesi all’anno. Gli iperborei erano visti come un popolo privilegiato e caro al dio Apollo, un popolo eletto che non conosceva la malattia e la morte. Tanti scrittori dell’antichità ne parlano definendoli come l’unica razza perfettamente civilizzata e contrapponendoli agli altri, i selvaggi.
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I protagonisti del romanzo di Pietro Castellito, Poldo, Stella, Guenda e Tapia sono amici fin dall’infanzia. Sono in un certo senso degli iperborei, eletti. In apparenza sembrano possedere tutto quello che i giovani della loro età bramano avere: benessere economico, salute fisica, vestiti alla moda, profili social seguitissimi. Vivono una vita dorata, fumano essenze, assumono droghe come da bambini consumavano caramelle. E tuttavia, cova in loro una profonda insoddisfazione, un malessere che fa sì la vita appaia come una messinscena, un prosieguo delle recite scolastiche che facevano a scuola.
Questi giovani sono figli di quella classe sociale i cui esponenti da giovani avevano «portato i pantaloni a zampa e che ora reggono le sorti del paese, che si ritrovano alle stesse feste anche se votano partiti opposti, che appartengono al club oramai inaccessibile di chi è cresciuto sognando un mondo migliore e poi si è accontentato di uno peggiore», ma che non sanno in fondo dare ai propri figli le risposte agli interrogativi che li attanagliano. Pur possedendo tutto, Poldo e gli altri si sentono in trappola e perciò decidono di fare un viaggio in barca.
È Poldo la voce narrante della loro sfida. Lui che da poco tempo è guarito dal cancro e sta per pubblicare un libro, narra ogni cosa con distacco, registrando con fermezza ma senza velature la nostalgia per l’infanzia perduta, la rabbia e al contempo la tenerezza nei confronti dei propri coetanei, capaci di farsi del male per protesta verso qualche principio o addirittura solo per ottenere un po’ d’amore.
In quel viaggio in barca Poldo ha portato con sé l’Anticristo di Nietzsche. Le parole contenute in questo testo filosofico sembrano rievocare le loro vite:
«Guardiamoci in faccia: siamo iperborei. Siamo ben consapevoli della diversità della nostra esistenza […] Abbiamo scoperto la felicità, conosciamo la via, abbiamo trovato l’uscita per interi millenni di labirinto. Chi l’ha trovata? Forse l’uomo moderno? […] È di questa modernità che c’eravamo ammalati, della putrida quiete, del vile compromesso, di tutta la virtuosa sporcizia del moderno».
Tutto il romanzo sembra essere permeato da un profondo senso di nostalgia, uno stato di malinconia profonda che attanaglia gli animi di questi giovani che sebbene possiedano ogni bene materiale, sono in realtà frustrati, insoddisfatti e vivono alla perenne ricerca di cose nuove: vini pregiati, macchine lussuose, vestiti di marca… Vorrebbero tornare alla placenta originaria, staccarsi dal presente, costruire un futuro nuovo.
«Vorrei una guerra, Poldo. Esplosioni ovunque e tutto che trema. Vorrei vedere le nostre case distrutte e queste palme in fiamme… Vorrei uscire dal cerchio. Nel bene e nel male, è tutto così prevedibile. E sono stanca di vedere le stesse cose. Vacanze, foto, feste…»
Questi giovani che non sono nati durante una guerra desiderano in realtà scoppi una guerra: «Voglio dormire per terra sotto il fuoco, davanti a una città crollata, e svegliarmi all’alba, guardare il cielo grigio sapendo che tutto è distrutto. Che tutto è finalmente distrutto. Finalmente il nulla. Finalmente la vita. E nessuno, neanche noi, a sapere come sarà».
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Gli iperborei è un romanzo incentrato sulle estremizzazioni. Si deduce già dall’incipit: «Chi non sa controllare le proprie emozioni può essere spesso pericoloso, chi sa controllarle lo è sempre». E ancora: «Vivere e non godersi mai nulla. Abbiamo un compito, noi. Un compito impossibile: distruggere, creare, distruggere. Simboli su simboli oltre lo stato dell’ansia. La nostra gioventù non conobbe la morte. La nostra morte conoscerà l’infanzia. Fanculo. Amen. E fanculo ancora».
Per la prima foto, copyright: Toa Heftiba su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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