Una novella siciliana. “Donna Francesca Savasta, intesa Ciccina” di Laura Lanza
La Sicilia probabilmente è la regione italiana che ha maggiormente fornito trame e pretesti letterari. Alcuni nomi: Verga, Pirandello, Sciascia, Brancati, Bufalino, Consolo, Patti, D'Arrigo, Tomasi di Lampedusa, per finire con l'acclamatissimo Camilleri. Recentemente sagre e storie di illustri famiglie siciliane portano la firma di alcune scrittrici. Tra queste, si colloca Laura Lanza che compone un agile libretto di sapore ottocentesco, incentrato su un paesino in cui tra le piccole faide familiari e curiali regna un certo blando regime boccaccesco. Il titolo è Donna Francesca Savasta, intesa Ciccina (Astoria).
Come si è anticipato si tratta di un lavoro che meglio avrebbe figurato in un'antologia di novelle dell'Ottocento. Il termine “novella” suona conseguente allo sviluppo del testo. Questione non solo di misura, ma di taglio, di respiro, concepito com'è il romanzo in azioni e sequenze “paesane” che non sconfinano da una limitata economia ispiratrice. In questo caso temi e ambientazioni “minori” (si usa il temine per convenzione), o vengono svolti e compensati da una certa potenza di linguaggio, oppure si sviluppano secondo canoni “semplici” (sempre la convenzione). Lanza sceglie quest'ultimo registro. “Semplicità” voluta, certo, per evitare di appesantire e falsare la lievità della narrazione. Che poi il tocco lieve sia fin troppo tenuto sul filo del “correttamente scritto”, be' questo può suonare come difetto. Ma non è difetto se le pretese del lettore non si spingono a voler ciò che il libro non offre. Nessun “affresco”, ma solo placido raccontino.
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Veniamo ai fatti narrati.
È buona usanza nelle recensioni non riassumere troppo la trama di un romanzo, in maniera che il lettore non venga troppo informato e suggestionato. In questo caso, la trama funge da ossatura, non tanto stilistica quanto propriamente narrativa. O meglio: aneddotica. Le soluzioni letterarie in sé non valgono molto, è piuttosto piacevole, “ascoltare” più che leggere ciò che succede in paese. Ovviamente il “parlato” ha la sua funzione, slittando tra la “lingua” siciliana (è presente un glossario) e il linguaggio generale usato dall'autrice che non va oltre una minima economia di scrittura. Definire “semplice” un romanzo non si sa quanto risulti elogiativo, ma nei riguardi di quello di Lanza bisogna dire che non poteva che essere scritto come è stato scritto, e che ogni legittimità di scrittura lo porta a essere considerato come “romanzetto”.
A un certo punto sembra che si tratti, anche, di un “giallo”, ma il morto ammazzato misteriosamente apparso, misteriosamente scompare senza che vi sia alcun seguito narrativo. Perché? Per dimostrare la laidezza e omertà che regna nel paese? Non basta.
Il “parrino” (nel pur nutrito glossario alla fine del volume non c 'è traccia di spiegazione) Peppino Gallo viene inviato dallo zio nel paese arroccato di Monteforte a officiare nella chiesa della Santa Madonna alle Grazie. Qui incontra Francesca Savasta, detta Ciccina, donna del popolo dotata di carattere e umanità. Don Peppino l’aiuta a diventare la prima levatrice del paese e a controllare la “ruota degli esposti” che nella propria chiesa accoglie i figli indesiderati. La donna lo ricompensa ospitandolo nel suo letto. Per don Peppino Gallo è l’inizio di un’altra vita “terrena”, lontana dai libri che ha sempre amato. Il romanzo è una descrizione fin troppo caratterizzata degli abitanti del paese, dipinti in maniera a volte briosa. Don Gallo e Ciccina si impegnano, in maniera più o meno rocambolesca, a risolvere i loro problemi e quelli di alcuni altri: da chi non riesce ad avere un figlio a chi offeso e vilipeso vuole teatralmente cambiare testamento. Un succedersi di “novelle” spesso blandamente irriverenti.
Si canta la Sicilia. È sempre opportuno? Piace tanto agli italiani e soprattutto ai “foresti”. In primo luogo agli americani (anche lo stereotipato Sud d'oltreoceano ha i suoi convenzionali estimatori).
Ciò su cui bisogna interrogarsi è il senso di operazioni di questo genere. La Sicilia è ormai materia letteraria extraterritoriale, repubblica editoriale che conta un’originalità buona per tutte le stagioni. Che parli di mafia o di parroci licenziosi. Il controcanto possono essere le mille e più pagine che ritraggono Mussolini? O l'eterno commissario e gli eterni assassini e assassinati? Fabula italiana cercasi.
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Infine. Lettura scorrevole, intercalata da termini dialettali che non disturbano come avrebbero potuto fare se troppo insistiti; si affida a una piacevolezza di “giornata” che non lascia il segno, ma che comunque diverte e scivola leggera e ammiccante, come potrebbe essere la “malalingua” trasmessa da una nutrice chiacchierona. Nulla di più ma pure nulla di fastidioso. Una novella dunque, con un certo piglio favolistico.
Per la prima foto, copyright: Carlo Alberto Burato su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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