Una narrazione in poesia. “La terra di Caino” di Alessandro Rivali
Puntata n. 129 della rubrica La bellezza nascosta
«I girasoli gridavano al vento, la grandine squartava i cani, i polmoni sfiatavano sui ganci. Caino sostava ai crocevia del male, ma benediva la rugiada che apriva le rose del deserto. E continuava a chiedere luce come Giovanni della Croce o Ungaretti sul San Michele.»
Ci sono dei libri che rappresentano un percorso. Un viaggio intimoche, grazie alle parole, diventa di tutti. Alcuni versi posseggono un’energia diversa, qualcosa di spirituale che, come una presenza, diviene tangibile, tattile.
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È il caso della raccolta di poesie La terra di Caino, di Alessandro Rivali, nato A Genova nel 1977, edita da Mondadori. Sin dall’inizio, dalle prime poesie, è chiaro come il poeta si voglia confrontare con i temi nevralgici che da sempre aleggiano sull’essere umano: il bene e il male. Rivali lo fa raccontando, con la lingua del poeta, momenti della Bibbia con la figura di Caino in primo piano.
«Caino bilanciava bruciature: vegliava le labbra dei morti e le immagini dell’Oltrevita. Se mai qualcuno era tornato, se ombre consolavano gli amici, quali luci schiarissero il Dopo. E le prime saghe degli uomini, l’avventura di Gilgamesh e i molti colori del male. Gridavano le donne sterili, gli sfigurati dalle murene, i condannati nel bitume. La sete non si rimarginava: la bellezza era un riparo, orientava gli occhi al futuro.»
Poesie che di volta in volta diventano memoria, ricordi. Precipitiamo nelle immagini di Caino, dei suoi giochi con il fratello, della loro infanzia. Il tono resta sempre grave, come se da un momento all’altro il castigo si possa abbattere sul mondo tutto.
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Il tragitto, dentro queste pagine, ci conduce poi avanti nel tempo. Si lascia indietro la polvere e i fatti biblici per arrivare a narrarci di Genova.
«Staglieno, il regno delle guglie sfida la fiamma dei cipressi. È una terra senza paragoni, di colline e radure tra le arche, di contrafforti, gradoni e boschi. Incontrerai capogiri di storie: le parabole dei desideri, gli amori senza rimedio. Dicono che l’ultimo giorno si alzeranno dai tumuli in coro: si accenderà il secondo sole e il drago scuoterà le stelle, ma forse la fine non sarà la selva di punte nella tonnara, ma un gallo che onora l’alba, una giovane madre che riscalda la colazione dei suoi bambini.»
Una Genova silenziosa, intima, libera dal trambusto moderno. Aleggia la morte sulla città ligure, nei versi di Rivali. Si muovono gli spiriti tra i vicoli, sull’acciottolato umido delle albe invernali.
Caino cerca qualcuno che lo perdoni. Cerca in una Genova scultorea e immobile uno scampolo di salvezza.
“«Poeta della morte», chiamavano così Bistolfi, come una maledizione. Eppure, erano scossi dalle sue ossessioni quando modellava corpi di seta. Dalle occhiaie, dalle mani sottili conoscevi il male della sposa. Qualcuno si copriva il volto, altri ritornavano al fiume con una pena decuplicata. Tornavano a casa segnati, accarezzavano figli e mogli, gesti che dilatavano la vita: diventava più compiuta, aperta a nuove epifanie.”
Versi, questi del poeta ligure, in cui campeggia il mistero della religione. Parole che si susseguono come dentro uno spartito musicale. Ogni verso cade e cede il passo al verso successivo, e tutto appare leggero, naturale.
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La terra di Caino è una narrazione in poesia, un racconto che prova a indagare sulle grandi domande della vita umana e che cerca e scava per arrivare quanto più in profondità si possa giungere. Rivali si sporca le mani ed esce fuori, dopo un’immersione durata secoli, senza risposte e con un cumulo di domande inesplose.
Per la prima foto, copyright: Jr Korpa su Unsplash.
Per la quarta foto, la fonte è qui.
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