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Una mattinata con Wilbur Smith, “Il leone d’oro”

Una mattinata con Wilbur Smith, “Il leone d’oro”Wilbur Smith torna nelle librerie italiane con la sua ultima fatica, Il leone d’oro (Longanesi), scritto questa volta in collaborazione con Giles Kristian, a sua volta affermato autore statunitense di best seller storici. Con questo romanzo, l’autore sudafricano aggiunge un nuovo capitolo alla lunga e fortunata saga dei Courteney, le cui vicende occupano, sia pure in contesti e epoche diverse, buona parte della sua produzione narrativa.

Per i cultori di questa saga, diciamo cheIl leone d’oro costituisce un seguito ideale di Uccelli da preda, pubblicato da Longanesi nell’ormai lontano 1997. Siamo infatti in Africa Orientale nella seconda metà del XVII secolo, e il destino di sir Hal Courteney, audace comandante della nave inglese Golden Bough, che è impegnata ad aiutare le truppe dell’esercito etiope cristiano in lotta contro i musulmani invasori del Gran Mogol, torna a intrecciarsi con quello dell’Avvoltoio, ovvero Angus Cochran, conte di Cumbrae e responsabile della morte del padre di Hal, sir Francis Courteney. La vicenda si snoda tra agguati, inseguimenti, arrembaggi, rapimenti e continui colpi di scena, fino all’inevitabile resa dei conti finale.

L’Italia è il Paese non anglosassone che conta il maggior numero di lettori di Wilbur Smith, che ci visita spesso in occasione della presentazione dei suoi romanzi. Lo abbiamo intervistato in occasione della tappa milanese del suo tour.

 

Questo libro si inserisce in una saga familiare, ma tra libri scritti ormai parecchi anni fa, visto che Uccelli da preda, alle cui vicende si ricollega, è uscito nel 1997: come mai ha deciso di riprendere in mano quei personaggi?

I personaggi rievocati in questo romanzo sono sempre stati lì, con me. Mi piace comunque variare, nelle mie storie, per cui posso spaziare dall’egizio Tahita che risale al 2000 a.C. alle storie di pirati di due secoli fa, e magari all’attualità moderna con Hector Cross.

 

In questo romanzo ci sono due tipi particolari di eroi: un protagonista che non ha paura di sporcarsi le mani quando è necessario e una donna che è anche una guerriera, perciò vorrei chiederle se secondo lei il nostro oggi ha bisogno di eroi, e di che genere.

Il mondo ha sempre bisogno di eroi, di qualcuno a cui fare riferimento e da ammirare. Al giorno d’oggi riscontriamo, per esempio, tanti eroi in campo sportivo, come i giocatori di calcio o di cricket, che fungono da modello di vita per noi, a cui molti si ispirano per fare grandi cose.

 

Nel romanzo ci sono tanti personaggi, alcuni che possiamo identificare come buoni e altri che sono chiaramente cattivi. Ce n’è uno a cui lei è particolarmente affezionato?

L’eroe è sempre il mio preferito! Io faccio sempre il tifo per lui e sto attento a metterlo in situazioni da cui penso che possa uscire bene, per cui direi senz’altro il protagonista.

 

Nel libro ci sono due cattivi, il sultano e l’avvoltoio, ma solo il secondo si rivela un malvagio totale. Perché questo personaggio è così cattivo?

In effetti nella vita è molto difficile trovare un personaggio che sia veramente cattivo al cento per cento: è una cosa rara, così come anche i personaggi eroici al cento per cento sono semplicemente frutto dell’immaginazione. L’Avvoltoio rappresenta il male estremo, tanto raro quanto la virtù assoluta e portata alle estreme conseguenze. Io trovo molto interessante giocare a giostrarmi tra questi due estremi. Trovare un equilibrio tra i due è il concetto di base per raccontare delle storie, così da fare in modo che i lettori odino e disprezzino un personaggio e invece tifino per l’altro.

 

Come mai ha trasformato l’Avvoltoio in un personaggio così mostruoso?

A volte non so da dove vengano i mie personaggi, si presentano all’improvviso mentre scrivo la storia e acquisiscono vita propria per diventare indipendenti da me. L’Avvoltoio all’inizio era un cattivo normale, anche bello d’aspetto ma dopo essere bruciato in un naufragio diventa una specie di mostro, così e a me è piaciuto seguire la sua evoluzione.

Una mattinata con Wilbur Smith, “Il leone d’oro”

Questo romanzo si inserisce in una saga, come del resto buona parte dei suoi libri, però ogni volume può essere letto singolarmente, perché non ci sono eccessivi riferimenti ai precedenti. Per questo volevo sapere cosa pensa degli scrittori che sempre più spesso scrivono lunghissime saghe, dove però è difficile capire le vicende dei personaggi se non si inizia rigorosamente dal primo volume.

I miei romanzi sono sempre autosufficienti perché io intendo rivolgermi anche a quei lettori che magari non hanno mai letto prima Wilbur Smith, e un giorno possono dire “Ok, facciamo un tentativo”, magari leggono un romanzo a caso e pensano “non male”. Da lì poi passano al successivo, così abboccano, e io li prendo all’amo!

 

In questo libro si parla molto dell’Etiopia, e io sono rimasto affascinato da come la descrive e dalle vicende dell’imperatore bambino, oltre alla leggenda che in Etiopia fosse custodito il Graal. Lei è mai stato in Etiopia? E c’è qualcosa di vero in questa leggenda?

Si io ho girato tutta l’Africa in lungo e in largo, sono da sempre affascinato dagli africani e dalla vita selvaggia e dagli animali che vivono in africa. Poi ho letto tutti i racconti e romanzi dei primi esploratori europei che si sono recati in Sudafrica, e mi affascina leggere quale fosse la loro condizione quando si credeva che il mondo fosse piatto. Ad esempio, erano convinti che, risalendo il Nilo, a un certo punto, sarebbero caduti giù, alla fine del mondo. Mi affascina vedere come la loro mente funzionava prima di tutti i viaggi e le esplorazioni, o i satelliti. Cercare di capire la mentalità del passato costituisce parte integrante di moltissimi miei romanzi, in particolare della serie ambientata nell’Antico Egitto, quando pensavano che sole e luna fossero la stessa cosa.

M’interessa comprendere come gli uomini passati cercassero di razionalizzare ciò che non comprendevano. Per quanto riguarda l’Etiopia, è stata una delle culle del cristianesimo, il sacro Graal era uno dei simboli di questa religione e così ho ritenuto importante parlarne.

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Lei ha dichiarato che chiuderà il “ciclo dei Courteney”. Quanto le costa allontanarsi da una dinastia, da una famiglia che ha raccontato per tanto tempo in un gran numero di romanzi?

Non è che abbia proprio l’intenzione di abbandonare del tutto i Courteney, perché in realtà ci sarebbero ancora tanti buchi da riempire a proposito di questa saga familiare. La famiglia dei Courteney è la prima ad avermi regalato il piacere di scrivere, e questi personaggi sono stati importantissimi per me, li ho sentiti in un certo senso come una sorta di famiglia: c’è anche il fatto che mio nonno di cognome faceva Courteney, quindi sono sempre al primo posto nella mia mente quando penso a un protagonista per un romanzo. Li conosco tutti, li amo tutti, so che alcuni hanno dei difetti ma questo accade anche alle persone nella vita reale.

 

In un’intervista apparsa su «La lettura» del «Corriere della Sera» lei parla dei “muscoli” dell’immaginazione letteraria e di come occorra allenarli. Quando si è reso conto, all’inizio della carriera, che quei muscoli erano abbastanza forti e che ce la poteva fare?

Ho cominciato a scrivere alle scuole elementari, avevo più o meno dieci anni e in questi primi racconti ero sempre io che figuravo come eroe, come personaggio principale. Devo dire che, a modo mio, anche adesso, quando scrivo, mi sento l’eroe delle mie storie perché prendo delle caratteristiche che magari io non ho, ma che mi piacerebbe avere, e le instillo nell’eroe della situazione. Questo personaggio de Il leone d’oro ha una sua moralità, ha un proprio codice di comportamento per cui lui ha sempre ragione e gli altri hanno sempre torto, e anch’io la penso un po’ così: se qualcuno mi dà retta va bene, altrimenti può andarsene per la sua strada!

Una mattinata con Wilbur Smith, “Il leone d’oro”

Come vive a livello emotivo il rapporto con la scrittura?

Scrivere è la mia vita, è qualcosa che mi affascina da quando ero un adolescente. Raccontare storie è l’aspetto più importante della mia vita, perché io vedo tutto attraverso gli occhi dello scrittore: guardo alla vita e mi chiedo come renderla ancora più efficace per raccontarla nelle mie storie, chiedendomi cosa muova e motivi le persone verso la vittoria o verso il fallimento. Secondo me raccontare una storia significa prendere la vita e ingigantirla, oppure cambiarla in modo da dare piacere ai lettor, e se riesco a fare questo anche solo un paio di volte nell’arco di un romanzo provo soddisfazione.

 

Tornando ai suoi esordi letterari, è noto che il suo primo romanzo è stato rifiutato da molte case editrici, sia sudafricane che europee, mentre quando è passato a temi più autobiografici e personali ha conquistato pubblico e critica. Pensa quindi che la chiave autobiografica sia stata determinante per arrivare al cuore del pubblico?

A scuola prendevo degli ottimi voti per i mie componimenti, poi alcuni racconti erano stati anche accettati dalle riviste che in quel periodo pubblicavano e quindi tutti quei piccoli successi letterari mi avevano incoraggiato a lanciarmi nell’avventura del romanzo completo, così ho pensato “a questo punto scriverò un romanzo che sorprenderà tutti”. Cos’ho fatto? Ci ho buttato dentro di tutto, ma proprio tutto quello che mi passava per la testa, iniziando a pontificare sul presente e sul passato, ottenendo un romanzo terribile e del tutto illeggibile. Conteneva in effetti tutti gli errori tipici di uno scrittore esordiente.

Ero convinto che avrei avuto un successo devastante, e invece più di trenta editori l’hanno rifiutato. Perciò ho cambiato registro, ho scritto una storia più semplice che comprendeva uno o al massimo due personaggi da seguire lungo una trama ben precisa, perché proprio il primo romanzo mi era servito a capire i fondamenti della scrittura. Così è nato Il destino del leone.

 

In che modo il presente influenza la visione del passato quando si scrivono romanzi storici?

Per me i romanzi storici non subiscono l’influenza del nostro presente, proprio perché so che questo non esisteva mentre si svolgeva l’azione. Forse una cosa che i romanzi storici hanno in comune con quelli attuali è che si dibattono sulle stesse questioni di base, cioè chi siamo e dove andiamo. Ma questa è una tematica universale e perenne che non ha ancora avuto risposta, perché non sappiamo come andrà a finire il mondo. Ciò che mi muove in questo tipo di romanzi è il fatto che io sono affascinato, come dicevo prima, dalla mentalità degli antichi, mi piace capire come la pensavano ai loro tempi e tra loro trovo materiale per ottime storie. Come noi, cercavano di accettare la realtà che li circondava. Noi, che oggi pensiamo di sapere tutto, in realtà non conosciamo ancora nulla del futuro, come loro.

Una mattinata con Wilbur Smith, “Il leone d’oro”

Cosa le piace leggere, e le offre eventualmente ispirazione?

Io leggo tutto quello che mi capita sottomano, mia moglie Niso poi è una lettrice accanita e spesso mi passa libri che magari io non penserei mai di leggere. Adesso ho letto Pilgrim di Terry Hayes, che è una storia di intrighi, un romanzo politico ma anche con altri tipi di sfaccettature. Cerco di leggere il più possibile, ma ultimamente sono così impegnato con le mie storie che forse mi rimane poco tempo per farlo.

 

Diversi suoi libri in passato sono diventati dei film. Cosa prova uno scrittore quando vede i suoi personaggi sullo schermo?

Uno scrittore dovrebbe coprirsi gli occhi e allontanarsi dalla televisione o dallo schermo che trsmette un film tratto da un suo libro: io non conosco nessun libro che sia migliorato grazie alla trasposizione cinematografica. Libri e film sono cose a sé. Alcuni dei miei primi libri sono stati accettati da Hollywood e sono diventati dei film, e questo può anche essere interessante per quanto riguarda la fama o il denaro che questo procura, però mi è capitato di andare sul set di un film tratto da un mio romanzo e mi sono reso conto di essere del tutto superfluo. Nessuno sapeva neanche chi fossi, tutti si basavano soltanto sul copione che avevano in mano. I film sono fatti per lo schermo e i libri per essere diffusi tra i lettori.

 

Se Wilbur Smith fosse qui come giornalista al posto di uno di noi, cosa chiederebbe a Wilbur Smith?

Oh, di sicuro “da dove vengono i tuoi personaggi”?


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