Una logorante fotografia al capitalismo. “Manodopera” di Diamela Eltit
Manodopera di Diamela Eltit (Alessandro Polidoro Editore, traduzione di Laura Scarabelli), è essenzialmente un breve romanzo che rappresenta i lati oscuri del capitalismo e della condizione umana ad esso legata.
Il libro, uscito nel 2002 e pubblicato in italiano a novembre 2020, utilizza il commercio, di preciso la grande distribuzione, come rappresentazione massima del consumismo e della spersonalizzazione dell’individuo.
Ambientato in un grande supermercato, si apre con un lungo monologo di uno dei tanti dipendenti, sull’orlo di una crisi di nervi. Dietro la calma apparente del lavoratore perfetto si cela un malumore profondo, precursore di rabbia esplosiva.
L’anonimo protagonista, infatti, tenta di sottostare alle innumerevoli regole e agli sguardi arcigni dei supervisori, fino a provare malessere fisico.
Nel suo lungo sfogo al lettore, mostra ingegnose e precise invettive contro i clienti, suddivisi per tipo, occasionali, abituali, anziani, migliori, e persino i bambini, che vengono categorizzati e personificati come il male. Gli occhi del protagonista diventano osservatori maniacali di una realtà assurda, filtrata da una mente portata, dalle condizioni lavorative, verso la paranoia.
«I bambini assaltano i camion, cercano di rompere gli involucri di plastica che proteggono le bambole e pretendono – addirittura – di far volare gli aeroplani, di sparare con le mitragliette o di strappare i componenti dai muscoli dei supereroi. In questi momenti, quando l’orgia della paccottiglia giunge al parossismo, la mia vita perde completamente di senso. La mia esistenza cola a picco. L’esasperazione a cui mi portano le loro azioni è estrema. Blindato in un’esperienza somatica inalienabile, osservo come (i bambini) posano le loro mani sudice su ogni singolo giocattolo e – con una premeditazione che mi sembra inequivocabile – sporcano i vestiti delle bambole.»
Procedendo con la lettura, il malessere provato dal protagonista, imprigionato nel supermercato, trasmette un vero senso di angoscia; l’odore degli scaffali e delle merci esposte, della plastica, dei vestiti e dei cosmetici, le luci artificiali sono descritti in maniera talmente realistica che riescono a trasportare il lettore all’interno di quel malessere, provando anche le stesse sensazioni fisiche, come nausea o fatica.
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Il lavoro, di cui comunque l’io narrante non riesce a fare a meno per vivere, è rappresentato come un unico lungo giorno sempre uguale, anche se il monologo ricopre un arco temporale più lungo, di cui il lettore si accorge quando lo scenario cambia, perché nel supermercato è arrivato il Natale e con esso un’orda di clienti famelici e di massacranti turni di ventiquattro ore.
Le festività natalizie, quindi, inserite all’interno della grande distribuzione, diventano un’ulteriore allegoria di un capitalismo straziante e disumano.
«Stremati e stanchi di confezionare la verdura, di provare a contenere i danni della frutta andata a male, di impacchettare la carne, di macinarla, di tagliarla a pezzi, di squartarla. Nauseati di tagliare polli rancidi. Disossarli. Sentirne l’odore. Traumatizzati dal pesce, dalle terribili esalazioni dei frutti di mare. Esausti e sconfitti dal cartellino appeso sul grembiule. Insultati dall’umiliazione di esibire i nostri nomi. Logorati dall’obbligo di mantenere intatti i nostri sorrisi tra le corsie. Stravolti e mortificati perché́ nessuno si rivolgeva a noi come si doveva. Sconfortati dalla reiterazione di domande idiote, tristemente abituati a ricevere rimproveri, penosamente obbligati a mascherarci. A vestirci da babbo natale il 25 dicembre, da orsi, da gorilla, da piante, da pappagalli, da uccelli pazzi le domeniche.»
Nella seconda parte l’autrice punta il faro sulle persone che danno il titolo al romanzo: manodopera. La narrazione si sposta su gruppo di dipendenti del supermercato, Isabel, Enrique Sonia, Alberto, Gloria, Andres, Pedro e Gabriel che abitano nella stessa casa per dividere le spese.
Personaggi come modelli del lavoratore frustrato, che non è contento del suo impiego e si lamenta ma non fa nulla di concreto per cambiare, adattandosi dolorosamente alle regole.
I toni divengono orwelliani: il supermercato con le telecamere nascoste come in un terribile grande fratello, i supervisori sadici come agenti della psicopolizia, e poi i dipendenti, loro, il noi narrante dei protagonisti, che diventano mera manodopera che brulica nel mondo-supermercato cercando di mantenere, invano, una sorta di umanità.
Non c’è traccia di felicità o sentimenti profondi, nemmeno nell’intimità della casa dove i personaggi convivono.
Le frustrazioni provate al lavoro rispecchiano anche la precaria situazione all’interno delle mura domestiche: in una sorta di alienate parallelismo, le stesse dinamiche vissute al supermercato si ripropongono nella vita di tutti i giorni. Invece di collaborare fra loro, presto i protagonisti diventano intolleranti l’uno con altro e si formano gerarchie, prevaricazioni, odi.
Proprio in questa esagerazione narrativa l’autrice riesce a dipingere ed esasperare sensazioni che ogni lettore che vive nel mondo moderno, occidentale, può avere sperimentato.
Come ben spiega Laura Scarabelli nella postfazione, l’autrice Diamela Eltit è come se scattasse una fotografia, «il raccontare diviene permanente esercizio di disvelamento, sempre volto alla problematizzazione della realtà più che alla sua risoluzione e spiegazione piana. In altre parole, i protagonisti di Eltit non hanno mai risposte ma stimolano domande e dubbi, espongono le loro incertezze, insieme ai loro corpi».
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Un’amara istantanea del consumismo, un testo senza sbocchi o soluzioni, ma che costringe a subire la situazione senza potersi ribellare.
Arrivati all’ultima pagina si ha la sensazione di avere navigato all’interno dell’assurdo, ma anche, nella maniera più reale e concreta, di essersi sentiti manodopera almeno una volta nella vita.
Per la prima foto, copyright: Nielson Caetano-Salmeron su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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