Una figlia alla scoperta della madre. Un estratto da “Nessuna pretesa” di Blandine Rinkel
Una giovane donna e quei post-it rosa per ricostruire la vita della mamma Jeanine. Si potrebbe sintetizzare così Nessuna pretesa, il romanzo di Blandine Rinkel, pubblicato in Italia da Enrico Damiani Editore nella traduzione di Annarita Stocchi.
Candidato al Premio Goncourt, l’esordio di Blandine Rinkel è in realtà anche qualcosa di più: la ricostruzione dell’enigma che è la vita di sua madre, come spesso accade a tutti noi con le persone che amiamo e che spesso, quando scopriamo le vie nascoste della loro quotidianità, ci appaiono quasi un mistero da scoprire.
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Blandine Rinkel, che sarà in Italia il 12 maggio al Salone del Libro di Torino e il 14 maggio presso l’Institut français di Napoli, è stata accolta in Francia benevolmente da critica e pubblico.
Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui di seguito il capitolo zero del libro.
Forse non amiamo davvero altro che gli enigmi; Jeanine ne diventò uno ai miei occhi alla fine dell’infanzia, quando, come il giocattolo o il cuscino preferito, smise di appartenere a quella rete di certezze amniotiche che è la famiglia fino ai dieci o undici anni, per diventare ci volle parecchio tempo – un corpo distinto e contrapponibile al mio: non più l’intima e ineffabile “mamma”, ma la ben dicibile “mia madre”, personaggio che potevo osservare da una posizione di spettatrice distaccata, che non vedevo più soltanto insegnare-proteggere-e-vincere, ma anche esitare-dubitare-e-desiderare, che intuivo fallibile, fragile e, come ogni essere umano, così inafferrabile nei suoi difetti e nella sua fragilità da divenire un mistero – non più una madre ma un segreto di famiglia, di quelli di cui non vedi l’ora di scrivere per poi scoprire che non riuscirai mai, completamente, a conoscerli. Di lei conosco soprattutto i racconti, che mi arrivano settimanalmente sotto forma di messaggi, piccoli monologhi di uno o due minuti depositati a distanza sulla mia segreteria telefonica, improvvisazioni orali, brillanti e giocose, capaci di compensare la mia incapacità di ascoltarla abbastanza a lungo per comprenderla – la sua verbosità tanto entusiasta quanto ripetitiva mi stanca abbastanza presto.
Il più delle volte racconta mentre cammina. Fa la spesa, è occupata in qualche attività, e i suoi racconti sono scanditi da una serie di scusa se mi senti affannata, vado di fretta, tesoro sta per cadere la linea, scusa per il rumore ma stanno facendo i lavori, oppure è lì, nella sua grande casa vuota, a percorrere in lungo e in largo quei duecento metri quadri su tre livelli e spopolati da quando mio padre e io, quasi simultaneamente, siamo andati via. Tra un piano e l’altro, con o senza smartphone, Jeanine è perennemente indaffarata: da quando è un’insegnante in pensione, si dedica ogni giorno a incessanti andirivieni con i pretesti più disparati – andare a prendere i panni nello stanzino della lavatrice, spostare una lampada dal garage alla soffitta, una bottiglia d’acqua al magnesio dalla cucina al salone e dal salone al bagno e poi correre (chissà poi perché) a controllare lo stato dello scaldabagno – una spola continua che la fa sentire felice nella sua attività, per quanto minima, piuttosto che infelice in una passività che le capita di vedere, qua e là, nelle donne più mature, le quali, smettendo di esercitare una professione, rinunciano parallelamente a ogni forma di attività e, come ripete spesso Jeanine con una specie di nodo alla gola, finiscono con l’inflaccidirsi sedute davanti a una finestra fino alla morte – dove la finestra non è evidentemente quella che si affaccia sulla strada, e tantomeno il finestrino di una Citroën, ma quella dei media, la televisione.
La sua la fissa per non più di un paio d’ore, la sera, quando gli altri, quelli che hanno una famiglia, un partner, degli amici di passaggio, preferiscono spegnerla per dedicarsi ai loro cari. Jeanine contempla gli altri su uno schermo quando non può più farlo sulle strade che gli altri hanno abbandonato per portare in casa gioie e dolori, quei minuscoli racconti dell’anima che tanto piacciono a mia madre al punto da essere diventati, forse, la vera ragione del suo agire, la misteriosa motivazione di tutte le sue peregrinazioni in ogni angolo della Loira Atlantica.
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Perché durante la giornata Jeanine cammina: da quando è in pensione ha percorso migliaia di chilometri sull’asfalto, girando su sé stessa e circoscrivendo centinaia di volte il suo recinto residenziale appartato – il suo paesino – abbandonandosi a circonvoluzioni infinite, labirinti intrecciati con un ditale da cucito, come se Marco Polo non fosse mai uscito dalla Loira Atlantica e dopo tanto deambulare avesse consegnato ai suoi cari non una dolce melopea esotica ma un trito ritornello locale. Ma è proprio così? Davvero la ripetizione dello stesso tragitto conduce sempre allo stesso racconto? Le strade e i sentieri che Jeanine percorre ogni giorno non sono forse popolati di incontri, visioni e riflessioni che deviano il corso delle sue passeggiate? Sì, la pensionata cammina costantemente ogni giorno, sui marciapiedi e sugli scali delle navi, nei parchi e nei supermercati, ma giro dopo giro, la sua destinazione in fondo conta poco, perché ciò che conta davvero sono le voci del mondo catturate al passaggio, fortuite polifonie che solo i passi perduti permettono di captare.
Ma ora sta a noi ascoltare le sue voci, quelle narrazioni intime e quei racconti che Jeanine ama riversare al pubblico, quando le si presenta l’occasione, sta a noi invertire i dati della realtà e guardare attraverso la finestra organica che è il suo sguardo, per andarle finalmente incontro.
Per la prima foto, copyright: Sam Manns.
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