Una donna e la sua lotta contro la società. Intervista a Jennifer Egan
Manhattan Beach (Mondadori, 2018 – traduzione di Giovanna Granato) è l'ultimo libro di Jennifer Egan, scrittrice americana autrice di vari romanzi di successo, tra cui Il tempo è un bastardo (minimum fax, 2011 – traduzione di Matteo Colombo) e Guardami (minimum fax, 2012 – traduzione di Matteo Colombo e Martina Testa), sempre molto diversi tra loro. In questo caso, siamo in presenza di un corposo romanzo storico, ma venato di noir, ambientato a New York durante la seconda guerra mondiale.
Anna Kerrigan è una giovane donna che, come migliaia di sue coetanee, si trova improvvisamente a farsi carico di lavori fino a quel momento preclusi al genere femminile: il mondo è in guerra, gli uomini vengono reclutati e partono per il fronte, lasciando scoperti posti di lavoro vitali sia per la vita di tutti i giorni, sia per la fondamentale industria bellica. Anna viene quindi assunta nei cantieri navali di New York, dove si costruiscono a ritmo frenetico le grandi navi militari per affrontare la guerra sugli oceani, e riesce poi ad accedere all'insolito mestiere di palombara, sconfiggendo i pregiudizi e i veti maschili.
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È già stata temprata dalla vita: il padre è scomparso alcuni anni prima senza lasciare traccia, abbandonando la moglie e le due figlie, Anna e la sorella minore Lydia, che è gravemente menomata dalla nascita e bisognosa di assistenza continua. Prima di scomparire, il padre aveva avuto con Anna un rapporto speciale, tanto da portarla spesso con sé in occasione di alcuni incontri dei suoi non ben precisati affari, come quando erano andati nella bella casa in riva al mare di Dexter Styles, un uomo ricco e potente.
Diversi anni dopo, le vite di Anna e Dexter sono destinate a incrociarsi di nuovo nel mondo equivoco che ruota attorno al grande porto di New York, tra locali notturni e malavita organizzata, mentre la guerra avanza e la città si avvia a nuove trasformazioni.
Di Manhattan Beach abbiamo parlato con Jennifer Egan, arrivata in Italia per un tour di incontri e presentazioni.
Anna è una persona che ha il coraggio di desiderare qualcosa di molto diverso da quello che la società del tempo si aspetta da lei. Qual è la sfida di raccontare un personaggio così, in un mondo in cui sembra ci sia ancora tanto da fare per le donne, e cosa c'è di lei in questo personaggio?
C'è molto poco di Anna in me, perché quando scrivo cerco di non identificarmi nei miei personaggi e di non scrivere mai di me, anche perché penso di non farcela. Non ottengo mai grandi risultati quando cerco di mettermi dentro un personaggio, per cui pongo una netta separazione tra me e lui: e poi, se devo essere sincera, una troppo stretta identificazione mi farebbe paura.
È una strana coincidenza il fatto che il libro sia uscito mentre partiva il movimentodi #metoo, e di tutto ciò che ha cambiato in modo sorprendente alcuni modi di considerare la donna. Tornando però al libro, una donna forte come Anna all'epoca andava contro tutte le regole e i pregiudizi. Non era facile affrontare una situazione del genere.
Magari anche oggi abbiamo lo stesso genere di problemi, anche se non se ne parla: magari s’impedisce a una donna di svolgere un certo tipo di lavoro, però non glielo si dice in faccia, come succedeva in passato. Questo ha arricchito la possibilità di narrare un personaggio così, una donna forte e ambiziosa, ma che va apertamente contro le regole.
Non bisogna però dimenticare che quello era comunque un momento particolare: in tempo di guerra tutto cambiava da un giorno all'altro, così che anche le regole in vigore il giorno prima potevano cadere quello successivo. Tutto accadeva in modo affrettato. Anche il desiderio di Anna di fare la palombara poteva quindi non essere del tutto irrealizzabile.
Questo margine d'incertezza tra la realtà e le possibilità è per me un elemento molto bello, che arricchisce la storia.
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Perché fra tanti mestieri che si erano improvvisamente aperti alle donne in tempo di guerra ha scelto di far fare ad Anna proprio la palombara, che è un lavoro abbastanza di nicchia?
Forse non so darle una risposta, perché certe scelte nascono per istinto, alla cieca.
La figura del palombaro è stata immediatamente importante, da quando nelle mie ricerche ho visto una fotografia dei palombari civili che lavoravano allora nel porto di New York. Mi è sembrato subito essenziale per il romanzo. Non è vero che fossero così rari, perché nei cantieri navali ce n'erano parecchi, soprattutto dopo l'incendio del Normandie, un grande transatlantico francese che aveva preso fuoco mentre era ormeggiato a Manhattan ed era affondato lì. Si era resa necessaria tutta una serie di lavori per ripristinare la nave, che era diventata in pratica il luogo dove si preparavano e si istruivano i palombari.
Io scrivo sempre a mano la prima bozza dei miei romanzi, poi rivedo tutto quello che ho scritto, ed elimino sempre un sacco di cose: il fatto che Anna andasse sott'acqua però è rimasto, perché mi sembrava essenziale nell'economia di un romanzo che parla di mare.
L'acqua in effetti è un elemento fondamentale nel romanzo, insieme alla presenza delle ombre. È stato così fin dal principio o le è venuto scrivendo?
In principio m'interessava descrivere la seconda guerra mondiale e New York, il rapporto intercorso fra la città e la guerra che si stava combattendo: in quel periodo tutto il commercio viaggiava attraverso il mare, attorno a cui c'erano molte strade, le banchine, tutte cose sparite dalla circolazione. Volevo considerare New York come una città portuale, una cosa a cui non avevo mai pensato nonostante ci abbia vissuto per anni. Poi ho cominciato a pensare al cantiere, all'andare sott'acqua, e quindi al mare.
L'acqua aveva un'importanza essenziale in quel periodo. Le ombre sono venute di conseguenza. Quando scrivo un romanzo mi chiedo sempre che genere devo affrontare, perché secondo me è molto importante: il genere è un po' come una lente d'ingrandimento che ti permette di seguire lo svolgimento della storia. In questa accezione ho pensato al noir, perché la trovo una forma di narrazione molto urbana, una forma descrittiva che mette in risalto il dramma e certi sentimenti dei personaggi.
Le ombre che trovi a New York non sono quelle degli alberi, ma dei grattacieli, che creano l'atmosfera specifica della città.
Nel libro lei è risalita all'origine dell'America come superpotenza mondiale. Oggi la sensazione è che continui a esserlo o stiamo assistendo a un suo declino?
È molto difficile, da americana, negare che esista un declino degli USA, soprattutto considerando quello che sta succedendo in questa amministrazione. Una superpotenza non può rimanere tale per sempre, arriva prima o poi un momento di declino. Forse ha anche a che vedere con l'11 settembre. Io c'ero, ho avuto delle esperienze personali, ed è forse stato quello che mi ha fatto venire poi in mente di scrivere un romanzo anche sulla seconda guerra mondiale, su cosa abbia rappresentato per la città.
Dove stiamo andando oggi credo che sia poco chiaro a tutti. Se si parla di superpotenza si parla di leadership e se si parla di quella si deve parlare di un leader. Più che un leader, però, Trump sembra un bambino capriccioso che è difficile tenere sotto controllo.
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Ho letto che lei ha tratto ispirazione da scrittori come Don De Lillo e David Forster Wallace. Vorrei sapere cosa pensa di Scott Fitzgerald e se può essere stato anche lui d'ispirazione, perché, soprattutto nella prima parte di Manhattan Beach, ho ritrovato le sue atmosfere e la stessa caratterizzazione dei personaggi. È un caso o corrisponde alla realtà?
Spero che Scott Fitzgerald faccia parte del mio DNA letterario, perché lo amo molto. Anche Il grande Gatsby è un gangster, per me è una delle più grandi opere della letteratura americana perché è scritto benissimo e perché riesce a enucleare la psiche dell'America. Anch'io ho descritto un gangster con una certa personalità, forse ho trasferito quel tipo di descrizione senza accorgemene: preparandomi per la scrittura di questo romanzo ho letto talmente tanta narrativa del ventesimno secolo che deve aver permeato il mio stile.
Lei ha scritto spesso di tecnologia e sperimentazione formale. Come mai in questo caso ha deciso di scrivere un romanzo storico e più tradizionale?
Prima di tutto mi piace scrivere libri diversi, poi volevo entrare nella narrazione mantendo un buon rapporto tra spazio e tempo; infine mi sono resa conto, come dicevo prima, che la seconda guerra mondiale vista da New York era un'ottima lente d'ingrandimento per analizzare una serie di problemi.
Questo mi ha permesso di avere un atteggiamento un po' più leggero nei confronti delle cose rispetto a Il tempo è un bastardo. Togliendo i salti nel futuro e la tecnologia che dominavano nei romanzi precedenti, ho compreso di essere anche un po' stanca e annoiata da quello. Volevo tornare alla buona e sana narrativa, dove le situazioni estreme si descrivono senza nessun tipo di trucco strutturale. Non si rischia di rendere memo comprensibile la storia stessa, anche perché, partendo da una situazione passata, fare balzi nel futuro significherebbe manipolare la Storia.
Se da un lato mi sono ritrovata un po' arrugginita, dall'altro mi sono detta che dovevo tirare fuori i nuscoli e cercare di lavorare su come si crea una certa atmosfera o si descrive un dramma senza ricadere nel melodramma, dimenticando la frammentazione di strutture narrative un po' troppo azzardate. Ho scritto un romanzo ambientato in un'epoca molto antecedente alla tecnologia, mangari nel prossimo tornerò a scrivere del mondo tecnologico.
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Per la prima foto, copyright: Andreas Selter.
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