Una delicata malinconia. “Il figlio prediletto” di Angela Nanetti
Il romanzo Il figlio prediletto, edito da Neri Pozza, è stato uno dei candidati alla vittoria del Premio Strega 2018. Angela Nanetti, l’autrice, è una veterana del panorama letterario italiano, nota soprattutto per i suoi libri per ragazzi e per il romanzo storico Il bambino di Budrio, col quale, nel 2014, ha allargato la propria platea al pubblico degli adulti. A questo pubblico si rivolge anche Il figlio prediletto, storia di ribellione e resistenza che ha per protagonisti due giovanissimi: Nunzio e Annina Lo Cascio.
Il racconto si apre in Calabria, all’inizio degli anni Settanta. Nunzio, il più giovane dei Lo Cascio, è un ragazzo di vent’anni bellissimo, astro nascente del calcio. La sua vita subisce un colpo terribile quando una notte tre uomini aggrediscono lui e il suo compagno di squadra e amante, Antonio Cifoti, che si erano appartati in macchina. Pochi minuti e la brutale aggressione si trasforma in un’esecuzione sommaria: Antonio, «a faccia ingiù e a braccia aperte, come un Cristo in croce», viene lasciato morire agonizzante sullo spiazzo, mentre Nunzio viene messo su un treno diretto in Inghilterra, e di lui in paese si perde ogni traccia. A questa storia, una ventina d’anni dopo, si aggiunge quella di Annina, nipote di Nunzio e figlia di suo fratello, Santino Lo Cascio, il mandante dell’aggressione. Annina non ha mai conosciuto lo zio Nunzio, partito prima che lei nascesse e morto quando era ancora piccola, ma conosce la pericolosità del padre, un padre-padrone che tiene lei e sua madre in pugno. È proprio per sottrarsi a un destino già scritto che Annina, diciotto anni appena compiuti e un promesso sposo col doppio della sua età a cui sfuggire prima che sia troppo tardi, scappa di casa e raggiunge prima Milano e poi Londra, la libertà.
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Tenendosi in equilibrio fra queste due storie, il romanzo di Angela Nanetti si rivela, alla lettura, un’opera coinvolgente e ben eseguita, che chiude in cassaforte l’attenzione del lettore già dopo le prime tre pagine. È lì, in quelle tre pagine iniziali, dove Nanetti evoca con pochi lampi la mattanza perpetrata ai danni dei due ragazzi, che il libro affonda come una lama nella coscienza del lettore. “E ora?”: traumatizzato e insieme avvinto, costui non fa che domandarselo e l’unico rimedio che ha è continuare a leggere. La lingua usata dall’autrice, poi, fa il resto: una lingua semplice, onesta, delicata, dove gli inserti in dialetto di Carmela – la madre di Nunzio e la nonna di Annina – conferiscono un tocco di autenticità in più al racconto.
Nonostante la possibilità di caratterizzare il romanzo dal punto di vista linguistico (italiano, calabrese, inglese e relative contaminazioni avrebbero fornito materiale a sufficienza per un interessante pastiche), Nanetti, a differenza di molti suoi colleghi italiani (De Giovanni e Camilleri, tanto per citare due nomi fra i più famosi), sceglie di concentrarsi unicamente sulla trama. Una scelta che ha dato i suoi frutti, visto che il romanzo riesce a seguire le vicende di un trentennio in appena 232 pagine, senza dare l’impressione di aver omesso o tralasciato nulla. Inizialmente le storie di Nunzio e di Annina procedono di pari passo a capitoli alternati, conferendo dinamicità alla narrazione. Poco prima della parte centrale del romanzo, questa alternanza si perde per concentrarsi sulla vita di Nunzio a Londra. Nel finale, la protagonista è invece Annina che al suo arrivo in Inghilterra, qualche anno più tardi, si imbatterà per puro caso nelle tenui tracce lasciate da suo zio nella metropoli.
«Quando sei a Londra, vedi dove Nunzio abitava e mandami notizie».
«Ma nonna, Londra è grandissima, non è come il paese, e non sappiamo niente di lui!»
«Tu vedi».
È proprio nel finale – così calibrato, rotondo, dove ogni pezzo va al giusto posto – che l’istanza romanzesca insita nelFiglio prediletto acquisisce maggiore visibilità. Si potrebbe parlare di finale annunciato – e in un certo senso lo è, innegabilmente –, eppure i passi che Annina compie verso l’esaudimento del desiderio della nonna di scoprire qualcosa sul figlio e la riparazione simbolica dell’ingiustizia disumana patita da quest’ultimo sono passi che esprimono una dignità non così comune. Ancora una volta credo che una parte del merito sia da attribuire alla delicatezza dello stile usato da Nanetti, dove per delicatezza non intendo solo la capacità della scrittrice di edulcorare ciò che rimane indicibile o il garbo con cui parla di emozioni e sentimenti, ma anche il rispetto del carattere di ogni personaggio e dei suoi tempi d’azione, nonché la fedeltà all’impronta che lei stessa ha dato al romanzo, nel quale la scelta di sospendere il giudizio sui fatti è l’esatto opposto del non avere un’opinione chiara riguardo a essi.
Omosessualità e omofobia, macrotemi del libro, sono questioni che per Nanetti non necessitano di commenti o glosse. Le opinioni riferite dai personaggi rispecchiano i ruoli da questi assunti all’interno del romanzo e, in esso, sono le uniche che si incontrano. Nanetti è una narratrice che si nasconde dietro la propria storia lasciando che siano gli avvenimenti a parlare. Nemmeno quando usa la prima persona singolare, la voce di Annina e quella dell’autrice coincidono. È questa caratteristica a controbilanciare l’elemento romanzesco che certe parti dell’intreccio mettono a nudo, ma nell’insieme il lavoro più che egregio di Nanetti lascia come ultima impressione quella di trovarsi con in mano un libro spontaneo e asciutto nel senso buono del termine, ossia privo di forzature di trama e (quasi) capace di raccontarsi da solo.
Più dell’omosessualità, argomento sul quale non vengono avanzate né opinioni né tesi, sono altri i temi importanti toccati da Angela Nanetti nel Figlio prediletto. Fra i meglio valorizzati troviamo temi astratti come la mancanza, la gestazione del dolore, l’estraniazione, ma anche altri di tipo antropologico, come il ruolo della donna nelle famiglie patriarcali del Sud, oppure di tipo storico-politico, come le rivendicazioni degli sparuti ma combattivi comunisti inglesi all’epoca di Margaret Thatcher e della deregulation. E poi, ovviamente, l’amore. Amore a trecentosessanta gradi, preso da ogni angolatura. Sono tanti i tipi di amore mescolati in questa storia, alcuni rivali, altri che si completano, altri ancora che non si conoscono o che fingono di non riconoscersi. Eppure, nonostante questa sovrabbondanza, il romanzo non viene illuminato nemmeno per un momento: l’amore raccontato da Nanetti è un amore appesantito dalle tare della vita, è un amore che non solleva ma appiattisce, che appartiene alle stesse regioni fredde da cui provengono la paura, il dolore e la malinconia.
Malinconico: dopo delicato, malinconico è l’aggettivo che a mio parere meglio descrive il carattere del Figlio prediletto. Tutti i suoi personaggi lo sono; e tanto più amano, tanto più lo diventano. Dopo Nunzio, al quale nessuno riesce più a restituire il sorriso perduto dei suoi vent’anni, ne sono un esempio sua madre Carmela e la madre di Annina, Agata. Agata, soprannominata dalla suocera «santa Rosalia» per la sua indole remissiva e delicata, ha fatto della malinconia la propria veste abituale; da lei provengono i soldi che permettono ad Annina di lasciare il paese, ma la timidezza e la paura di non riuscire a guardare negli occhi la figlia senza vergogna per non averla saputa proteggere dalle pratiche malavitose del padre le vietano di essere lei stessa a consegnarglieli. Sarà Carmela a farlo, Carmela, la donna tutta d’un pezzo che soffoca la malinconia che la divora sotto una scorza più dura di quella degli ulivi della sua amata terra, e che non ai vivi ma ai morti ha sempre confessato il proprio dolore.
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Prima parlavo di finale rotondo e in effetti, ora che ci penso, il percorso che Angela Nanetti traccia per Annina è proprio un cerchio. La tomba di famiglia dove, ancor bambina, accompagnava la nonna per la visita settimanale all’amato figlio è il luogo in cui essa torna da adulta con le risposte che Carmela ha atteso oltre la vita terrena. Sono tentato di citare qualche passo del capitolo finale – uno dei più belli del romanzo, se non il più bello –, e lo farei se solo non rovinassi ai lettori dell’articolo il piacere di scoprire questo libro delicato e malinconico, un libro il cui pregio più grande è quello di aver trovato lo stile e l’approccio più giusti per raccontare una storia che forse non brilla per originalità, ma che nel sospendere il giudizio sugli uomini e sulle loro azioni ha condannato, parificato o reso dignità più di tanti altri libri, sentenze e disegni di legge pensati allo scopo.
Per la prima foto, copyright: Japheth Mast.
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