Una chiacchierata con Paolo Roversi, per il ritorno del suo Radeschi
Quando arriviamo Paolo Roversi sorseggia un Mojito, ci sorride e ci offre da bere. Davanti a sé ha le copie del suo nuovo libro, Cartoline dalla fine del mondo, un giallo appassionante e ironico che in questi giorni l’editore Marsilio porta in libreria. Finalmente Enrico Radeschi, il giornalista e hacker sempre in sella alla sua Vespa gialla 1974, è tornato.
Siamo a El Paso de Los Toros, in via Lazzaro Palazzi 7, Milano, e non è un caso se ci siamo dati appuntamento proprio qui: si tratta di un locale storico per Radeschi, che, fin dalla sua prima avventura in Blu Tango (Stampa Alternativa 2006), periodicamente viene in questo ristorante argentino noto per i suoi prelibati piatti di carne. E così fa anche quando torna in Italia, dopo otto anni in giro per il mondo tentando di far perdere le sue tracce. Già, perché alla fine de L’uomo della pianura (Mursia 2009), l’ultimo romanzo che lo ha visto protagonista prima di Cartoline dalla fine del mondo, Radeschi è scappato da Milano per salvarsi la vita da un malintenzionato che tenta di portargliela via. «Il problema è che oggi, con le infinite tracce digitali che disseminiamo per il web, sparire è piuttosto difficile», ci spiega Roversi. «Ci vogliono almeno cinque anni per scomparire completamente e per farlo bisogna cambiare del tutto le proprie abitudini: devi cambiare look, marca di tabacco, bevande preferite; Radeschi, pur essendo un carnivoro puro, tenta addirittura di diventare vegetariano, ma presto ci rinuncia».
Radeschi è tornato, in libreria e a Milano. Come ha deciso di riprenderlo in mano?
L’operazione Radeschi è ricominciata col prequel L’operazione delle ossa nel 2016. Radeschi non sarebbe mai tornato se non ci fosse stato un caso all’altezza e quello che viene presentato alla sua attenzione lo è. D’altra parte, Milano, il buon cibo, il suo cane Buk, insomma, la sua vecchia vita, gli mancavano. È un romanzo che ha a che fare col Deep Web, droni militari e Leonardo Da Vinci, che, a proposito, è più legato a Milano che a qualsiasi altra città.
C’è stato un episodio che ha ispirato questa nuova storia?
Una sera passavo per il Duomo e mi sono accorto che era in corso una festa al palazzo dell’Arengario, la sede del Museo del Novecento. Chi si può permettere una location del genere?, mi sono chiesto, e ho cominciato a scrivere. Ed è così che a inizio romanzo, proprio durante un party esclusivo al palazzo dell’Arengario, avviene un omicidio, davanti al celeberrimo dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato. Sulla scena del delitto arriva il vicequestore Loris Sebastiani, amico da sempre di Radeschi, senza il quale si sente spaesato. Così, quando l’indagine giunge a un punto morto e nuovi omicidi vengono commessi, capisce che è giunto il momento di far tornare sul campo il migliore.
Tra l’altro il cattivo non è morto.
Il cattivo non deve mai morire, è una delle regole dei gialli: il più che puoi fare è metterlo in una prigione di massima sicurezza, dalla quale, all’occorrenza, può evadere e tornare in scena.
Quanto è cambiato Radeschi da Blu Tango, il primo romanzo che lo ha visto protagonista?
Radeschi è cambiato moltissimo, così come sono cambiato io in questi anni in cui siamo stati lontani. Ho scritto quattro romanzi di fila sulle sue avventure poi mi sono fermato, volevo cimentarmi in qualcosa di diverso. Ma alla fine, per mio desiderio e per desiderio dei lettori, è tornato. Contrariamente a tanti eroi seriali, come Montalbano, che non invecchia mai, Radeschi, invece, invecchia con me.
Mi pare di rintracciare nel romanzo alcuni elementi tipici della narrativa distopica. «Il grande fratello, in un mondo digitale, esiste davvero e sta con le antenne ritte», scrive a un certo punto. Il mondo digitale, lascia intuire, pare uscito da un romanzo di Orwell. Anche il titolo, oltre a rimandare ai posti più lontani dall’equatore che ci siano sulla faccia della terra, pare andare in questa direzione. Si tratta di un riferimento inconscio? Non ci sono forse tra i suoi riferimenti letterari proprio distopie come 1984 e Il cerchio di Dave Eggers?
No, almeno non consciamente. Il titolo a dir la verità è un omaggio al Sepúlveda de Il mondo alla fine del mondo e di tutti quei romanzi ambientati nella Terra del Fuoco. Però è vero, oggi la tecnologia può essere un’arma potentissima, basti pensare che El Chapo, quando è scappato, è stato preso perché suo figlio ha scattato una foto senza disattivare la geolocalizzazione nei metadati del suo smartphone.
Il ritorno di Radeschi a Milano dopo otto anni è anche l’occasione per raccontare il cambiamento straordinario che ha vissuto la città meneghina nell’arco di un paio di lustri. Una città incantevole, che a volte ricorda Parigi, come scrivedescrivendo la zona dell’Arco della Pace, o Venezia, come scrive parlando della nuova Darsena. Crede che Milano non abbia ancora trovato un proprio modo di essere bella o la sua bellezza sta proprio nella capacità di assorbire gli stimoli esterni e di rielaborarli?
Credo che si tratti proprio di quest’ultima possibilità. Sono arrivato a Milano pensando che fosse una brutta città, ma non è così. Io, come Radeschi, sono innamorato di Milano. È la più europea tra le città italiane.
Quali sono i tuoi punti di riferimento letterari? Ci sono autori a cui ti ispiri?
Ho un autore feticcio che è Bukowski. Ho iniziato a leggerlo che avevo diciannove anni, durante l’anno della maturità. Stavo approfondendo gli scrittori russi quando, accanto a Bulgakov, ho trovato Bukowski, che ho scambiato per un russo. Solo leggendolo ho scoperto che si trattava di tutt’altra cosa. Era il 1994. Gli ho portato sfiga, perché è morto proprio quell’anno, l’anno in cui lo scoprii.
Tra gli italiani?
Massimo Carlotto e il maestro Scerbanenco. Quando, iniziando a scrivere, mi immaginavo Milano avevo in mente quella Milano che raccontava Scerbanenco nei suoi libri. La sua prosa è insuperabile, resiste al tempo. Ha scritto tanti romanzi molto belli, come I ragazzi del massacro e Venere privata. Ma due mostri sacri sono anche Ellroy e Don Winslow. Winslow, con Il potere del cane, ha spazzato via tutti. Per me fondamentali sono anche Camilleri e Manuel Vázquez Montalbán, i quali – contrariamente agli scrittori anglosassoni, i cui personaggi hanno la mania di non mangiare e non dormire – danno spazio nelle loro storie al cibo, cosa che piace fare anche a me.
In fondo, cambia il modo di commettere l’omicidio, cambia la tecnologia utilizzata, ma chi uccide lo fa sempre per gli stessi motivi. Il suo romanzo lo dimostra, non è così?
Tu vesti la storia come vuoi, crei del fumo per gli occhi per catturare l’attenzione del lettore e distrarlo, ma alla fine ti rendi conto che si uccide persoldi, potere o amore e gelosia. Alla stessa maniera in cui il bello del viaggio non è giungere alla meta ma il viaggio stesso, penso che uno legga questi romanzi per sapere cosa combina Radeschi, non per scoprire chi ha commesso l’omicidio.
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Per la prima foto, copyright: Cristina Gottardi.
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