Una bellissima lettera d’amore di Cesare Pavese
Di Cesare Pavese ci siamo occupati spesso sul nostro sito, raccontandovi ad esempio la sua reazione quando vinse il Premio Strega o il ricordo di Natalia Ginzburg che narrò, con parole intense e precise, il suicidio dell’autore di La luna e i falò.
Quest’oggi invece vi proponiamo una sua bellissima lettera d’amore indirizzata a E., una donna di cui lo scrittore si era innamorato.
Cesare Pavese a E. (1932)
Sono stato male tutto il giorno a non vederti sulla strada di Crevacuore E., com’è brutta Torino. E il più triste di tutto questo è che ci dimenticheremo, senza esserci quasi nemmeno conosciuti. Non so quel che tu veda in me, ma io indovino in te un miracolo di femminilità e di tenerezza, che, come si è formato avanti agli occhi a poco a poco in tutta l’estate, così ora colla medesima lentezza andrà svanendomi nelle nostre lettere. E., ho paura che i nostri ultimi giorni di * – li dimenticheremo mai? – siano stati come una crisi, un punto massimo, oltre il quale non andremo.
Questo per ora è un pensiero che mi dispera, ma il giorno in cui mi lascerà indifferente ci pensi, E.? Non è la disperazione, la sofferenza, che ci deve far paura – questo è nulla, è anzi ciò che ci può rendere più meraviglioso un altro incontro – ma il momento che non soffriremo più, che non ce ne importerà più, questo è il terribile.
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E pensare che probabilmente noi tra poco dovremo perderci, senza quasi esserci conosciuti, senza sapere di noi più che uno sguardo, un bacio alle dita, qualche carezza.
Che cosa pensi tu, E.? Perché tremi quando sono con te? Cosa c’è dentro ai tuoi occhi quando mi guardi sorridendo e poi ti fai seria, quasi ostile, e poi torni a sorridere? Queste cose le perderò senza averle mai conosciute.
Io d’amore non so piangere E. – piango a sentire un’ingiustizia, una crudeltà, un dolore di bambino – e non posso nemmeno consacrarti delle lacrime per tutto il dono immenso che hai fatto a me in questi giorni. Piangerò forse quando ripenserò – e sarà tardi – al tesoro di quell’amore sprecato così, per uno che non ne vale la pena: tant’è vero che lo lascia ora morire senza nemmeno commuoversi, senza tentare di far nulla per conservarselo, meritarselo.
Ma che altro potremmo fare? È inutile mentire: in amore conta il corpo e il sangue, conta la stretta, la vita, e noi dobbiamo star staccati, dobbiamo avere giudizio, ragionare; mentre la ragione non conta dinanzi alla vita.
Tu sprechi il tuo amore, E. Io non so di volerti bene se non ti sono stretto vicino, e questo temo voglia dire che non ti voglio quel bene che tu desideri.
Ma di una cosa sarò gioioso, se non temessi che tutto fosse per finire con quello: i nostri pomeriggi a * a guardarci negli occhi e carezzarci. Quelli non li dimenticherò mai. Fa, E., che tutto non finisca qui: dammi una probabilità di amarti meglio, di esserti più fedele nei miei pensieri, più degno di te!
Se mi scriverai, devi giurarmi che a Bra staremo sempre insieme senza stancarci.
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Ma dove andremo a finire E.? C’è qualcosa di più assurdo dell’amore? Se lo godiamo fino all’ultimo, subito ce ne stanchiamo, disgustiamo; se lo teniamo alto per ricordarlo senza rimorsi, un giorno rimpiangeremo la nostra sciocchezza e viltà di non avere osato. L’amore non chiede che di diventare abitudine, vita in comune, una carne sola di due, e, appena è tale, è morto. A pensarci, si viene matti! È inutile, l’amore è vita e la vita non vuole ragionamenti. Ma possiamo noi lasciarci andare giù così alla disperata? Dove andiamo a finire? Non so trovare parole di conforto per te che valgano, se non ricordarti quel giorno che eravamo stretti insieme, in piedi, e pareva che uno dei due dovesse condurlo a fucilare e invece era tutta gioia. Ricordami quell’attimo, E., se mi scrivi, e dimmi di quando saremo a Bra.
Ti bacio così, come vuoi tu, anche se sei stata cattiva a non venire sulla strada di Crevacuore.
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