Un viaggio (senza meta) nell’ultima roccaforte della cultura tibetana
Paolo Cognetti, con Le otto montagne, edito da Einaudi nel 2016, si aggiudica il Premio Strega 2017. E oggi, grazie a Senza mai arrivare in cima – Viaggio in Himalaya, pubblicato sempre per la stessa casa editrice, si conferma un ottimo narratore, capace di far rivivere al lettore le esperienze che ha provato direttamente sulla sua pelle, in un viaggio (senza meta) nell’ultima roccaforte della cultura tibetana.
Tuttavia, quest’ultimo lavoro dell’autore milanese, noto anche per la raccolta di racconti Sofia si veste sempre di nero (Minimum Fax, 2012), seppur scritto con maestria e ricco di frasi e passaggi memorabili, sembra non aggiungere molto a quanto già letto in altri libri dello stesso genere. Risulta piatto, a volte prevedibile, almeno nella storia. È un mero “taccuino di viaggio”, come riporta anche la descrizione del volume. Un diario, niente di più. Certo, potrebbe obiettare qualcuno, è esattamente quello che Cognetti presenta, ma mentre ci si avvicina al testo dopo aver letto la sinossi e varie recensioni, beh, ci aspetta forse qualcosina di più. E invece ci si trova davanti un racconto lungo, ben fatto e pregno di affascinati descrizioni, ma pur sempre un didascalico resoconto dell’ennesimo viaggio sulle vette misteriose del Nepal e del Tibet.
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A ogni modo, ciò che si evince subito dalla lettura di Senza mai arrivare in cimaè la bravura dell’autore nel descrivere i paesaggi che incontra durante il percorso. Il linguaggio usato da Cognetti è in grado di far assaporare il fascino dei monti, la bellezza dei torrenti, la tranquillità delle valli e dei laghi. Ma è anche capace di raccontare con dovizia di particolari l’aspetto e il carattere degli abitanti di quei luoghi remoti, le tradizioni e gli usi. È in grado, in sostanza, di descrivere un mondo che, con le sue peculiarità uniche, è ancora qualcosa di puro. Immacolato. Fatto di erba, terra, strade sterrate e villaggi cotti da sole.
Cognetti ci presenta anche animali rari, come le pecore azzurre e gli yak, la natura incontaminata, i riti religiosi, le preghiere e le leggende del posto. Attraversa zone deserte e città semi abbandonate, incontra nuovi amici – come la cagnetta Kanjiroba – e scopre, salendo sopra i cinquemila metri, quelli che sembrano essere i limiti del suo fisico.
È un viaggio che lo scrittore di Milano, classe 1978, compie per il suo quarantesimo compleanno. Un cammino sulle vette e le valli dell’Himalaya in compagnia di un suo amico d’infanzia, Remigio, e di Nicola, un pittore con cui condivide la passione per Tiziano Terzani. Accompagnato da un’indispensabile carovana di oltre quaranta persone, tra escursionisti, sherpa e guide.
E a fare compagnia a Cognetti c’è anche un’altra cosa: Il leopardo delle nevi, forse il più noto libro (pubblicato nel 1979) dello scrittore americano Peter Matthiessen, anch’egli amante della montagna, il quale aveva già compiuto un percorso nel distretto di Dolpo (Nepal), simile a quello dell’autore milanese. Un volume a cui Cognetti tiene particolarmente e che, durante la traversata di quei luoghi incontaminati, legge e rilegge, ammirando quello che – a grandi linee – è considerato l’ultimo rifugio della pura cultura tibetana. Un posto dove Matthiessen, assieme allo zoologo George Schaller, si reca con la speranza di incontrare le già citate pecore azzurre.
Questo è Senza mai arrivare in cima: un diario scritto sapientemente ma senza alcun intreccio narrativo. Un testo raffinato, in cui le frasi hanno un suono melodioso e in cui periodi e paragrafi sono concatenati a dovere da accorgimenti stilistici ricercati. Le immagini descritte sono suggestive e affascinanti. È un’avventura calma, dove il vero protagonista è il territorio. Un territorio che fa da sfondo a una spedizione senza traguardi né obiettivi; un concetto che alla lontana ricorda un po’ il mito del Santo Graal, dove i cavalieri andavano alla ricerca della magica coppa per poi scoprire, alla fine, che il reale tesoro era in realtà la ricerca in sé e non l’oggetto.
Ciò che colpisce è di sicuro il sentimento che l’autore ha nei confronti della montagna e della fatica. Un sentimento nuovo, diverso, che traspare subito dal racconto: un impulso insolito, intimo, e lontano dalla classica concezione dell’alpinismo, che guarda spesso al banale raggiungimento della vetta. È una passione inconsueta, che fuoriesce dalle esperienze raccontate e che l’autore è riuscito a rappresentare alla perfezione già nelle prime pagine del testo. Un traguardo che lo stesso Cognetti aveva dichiarato di voler raggiungere in un’intervista rilasciata qualche mese fa: «La montagna che racconto e vivo – aveva affermato – non ha più niente a che fare con l’alpinismo [..] mi interessava trovare un mondo che fosse lontano da una civiltà che mi sembra tutta uguale. […] Volevo vedere un mondo che fosse lontano e la montagna, che protegge e isola, mi ha permesso di trovarlo. Il cammino in montagna è per sua natura un rapporto con la fatica, e così il viaggio diventa un continuo confronto con te stesso».
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Riassumendo, Senza mai arrivare in cima è un viaggio (senza meta) nell’ultima roccaforte della cultura tibetana, un diario scritto con destrezza stilistica, che conferma – se ce ne fosse stato bisogno – la bravura dell’autore nel descrivere i suoi luoghi cammini sulle vette più alte del Globo. È un testo privo di suspense sì, ma capace di catapultare il lettore al centro di terre uniche e magnifiche: un “taccuino di viaggio” che farà felici gli amanti del genere.
Per la prima foto, copyright: Christopher Burns su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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