Un viaggio per superare il dolore della perdita. “Suttaterra” di Orazio Labbate
«“I nostri corpi sono assemblee. Chiudi gli occhi e raccogli le tenebre per poi espellerle nel ventre della Donna” – mentre il figlio a occhi chiusi piangeva, le lacrime baluginavano nel fuoco al tocco della luce della candela del padre e cadevano sul pavimento in lamiera, componendo vertici di triangoli sulla zigrinatura.»
Cosa c’è nell’aldilà? Qual è la materia della morte? Di cosa è fatto l’ultimo respiro?
Se scontrarsi con le impossibilità della morte è la base di ogni vita, cercare un significato nascosto, una strada, un sentiero che possa condurci nei luoghi remoti dei defunti è forse un movimento pericoloso, che richiede un grado di follia e una fede incessante nelle cose che non siamo in grado di vedere. Se ricevessimo un segno, una lettera, una voce direttamente dall’oltretomba, quale potrebbe essere la nostra reazione? Ci sono domande che non richiedono necessariamente una risposta, domande che rimangono sospese a mezz’aria, che ci danno il tormento e ci conducono per mano nelle notti senza sonno, nei risvegli dagli incubi sudati, con la pelle del corpo impasticciata di terrore.
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Reagire al lutto, affrontarlo, guardare la persona defunta come qualcosa di ancora materiale, osservare una sedia vuota che possiede la forma e il gesto, donare gli occhi e il respiro a una fotografia dove c’è ancora una parvenza di vita. Ci sono spostamenti pericolosi dove in gioco ci sono i battiti cardiaci, e a ogni battito consumato velocemente corrisponde una parte di noi che si consuma irrimediabilmente, spesso nell’attesa di qualcuno, qualcosa, che potrebbe non giungere mai. Ma ci sono gradi di pazzia elevati, dove anche la realtà che sfugge all’occhio umano prende movimento e diventa quasi tangibile, quelli sono i luoghi della disperazione, dove un uomo perde il senso di ciò che è reale, e si addentra in una ricerca impossibile (?) di un segnale proveniente da sotto terra.
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Orazio Labbate è nato a Mazzarino nel 1985 e ha trascorso la sua infanzia a Butera. Ha esordito nel 2014 con il romanzo Lo scuru (Tunué edizioni). Suttaterra è il suo secondo romanzo, pubblicato ancora una volta da Tunué.
Ci troviamo Milton, e seguiamo le vicissitudini di Giuseppe Buscemi, becchino, siculo-americano, rimasto vedovo ad appena trent’anni. Un giorno, tra la disperazione quotidiana e i suoi propositi di mettere fine alla sua vita, riceve una lettera da Gela, a scriverla è stata Maria, la sua defunta moglie, che gli chiede di raggiungerla nel loro “posto”. Giuseppe, stravolto e guidato da una follia irrefrenabile, decide di partire per Gela, e andare incontro a ciò che sembra una cosa impossibile. Si imbarca e inizia il suo viaggio allucinate e allucinato, attraverso personaggi misteriosi, luoghi oscuri, dialoghi surreali e ambienti claustrofobici. Il suo sembra come fosse un viaggio verso l’inferno, dove ciò che sembra non è, e tutto quello che potrebbe sembrare reale potrebbe in fondo non esistere.
«Gemevano le alte foglie del campo di granoturco, mentre il vento le sfregava come se dovessero scintillare per la nascita di un fuoco. Nelle campagne di Milton le magie si consumavano da sempre, sullo sfondo di sempre uguali e indifferenti cosmi.»
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Ciò che sorprende di più in questo breve romanzo è l’uso della lingua di Labbate, sempre pulita, ma al contempo dotata di una potenza evocativa fuori dal comune. La narrazione dello scrittore è ricca di suggestioni, di visioni, tutto quello che viene descritto sulla pagina sembra quasi poter prendere vita davanti agli occhi del lettore. Un racconto, quindi, dai toni lovecraftiani, visioni degne dei migliori incubi di David Lynch, il gotico prende vita, tornando con forza nella letteratura moderna e riportandoci il sapore lontano di un romanzo antico e nuovo.
Orazio Labbate ha una potenza descrittiva che gli permette di incunearsi attraverso frasi e periodi che potrebbero contenere insidie, ma lui le maneggia in maniera perfetta, restituendoci il vero gusto della lettura e il vero valore della parola scritta.
«Come potevo ancora dormire senza le sue labbra, i suoi capelli degli uccelli e di ogni fiore appassito, la pellicola angelica che era il suo corpo; i tagli della foto nei luoghi più ammazzati dal tempo della foto, l’usura dei vestiti; la carta si appallottola, e la pelle che dai pori respira e lo sento nella foto, e sento l’acqua; e sento che può anche piovere una seconda volta oggi. Ma è ancora presto perché giunga l’alba con le sue eclissi lilla.»
Orazio Labbate porta l’incubo in luoghi neutrali, anonimi, facendoci percepire ogni singolo processo evolutivo della follia, e forse di una realtà invisibile che non siamo pronti ad affrontare.
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Se ricevessimo una chiamata da un nostro defunto, e ci pregasse di raggiungerlo in un luogo preciso, senza dare spiegazioni, che cosa saremmo pronti a fare?
Ci sono luoghi che andrebbero lasciati riposare, e vasi che non andrebbero scoperchiati, e ci sono visioni talmente nitide da farci dubitare dei nostri stati di veglia. L’equilibrio tra ciò che è sano e ciò che è folle è talmente labile che tutti noi potremmo ritrovarci in una parte di vita fuori luogo, fuori tempo, fuori spazio, e l’unica domanda che potremmo farci sarà se siamo davvero pronti ad assecondare la nostra pazzia, o se siamo campaci di reprimerla e farcela esplodere dentro.
Per la prima foto, copyright: Rob Potter.
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