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Un viaggio nel corpo vivo dell’Appennino

Un viaggio nel corpo vivo dell’AppenninoCon Corpo Appennino (Ediciclo), Simona Baldanzi ci fa camminare tra i sentieri dell’Appennino, nei luoghi della Resistenza a un ritmo più cadenzato, che invita alla memoria e alla riflessione.

 

E proprio di questo abbiamo parlato con lei nell’intervista che ci ha gentilmente concesso.

 

Spero mi perdonerà la domanda così diretta: qual è il corpo dell’Appennino?

La grafica del corpo libro riprende le curve di livello segnate nelle mappe, una sorta di connessione con l'anatomia del territorio, non solo renderlo tridimensionale. Corpo Appennino è renderlo vivo, complesso, simile a noi, un pari con cui dialogare. È dargli forma e anche voce, presenza. Non è uno sfondo, è soggetto.

 

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Un viaggio nel corpo vivo dell’Appennino

Tra le citazioni poste in esergo mi ha colpito molto quella tratta da Calvino: «Non è la voce che comanda la storia: sono le orecchie». Perché l’ha scelta? E non trova anche lei che si tratti di un modo per responsabilizzare tutti noi?

La storia e le storie trovano collocazione e memoria grazie alle orecchie. Se non c'è nessuno che la ascolta, la storia non esiste o non si tramanda. Sicuramente l'ascolto è un atto politico, il primo che può sembrare fin troppo semplice, ma che non sempre teniamo presente ed è anche responsabilità. Se ci tappiamo le orecchie, se le volgiamo altrove, se ci facciamo sopraffare da altri rumori, anche noi si contribuisce a soffocare, a distorcere, a non progredire quella storia. Rimaniamo nell'ovatta. Dall'altro lato crediamo che comandi la voce e rinunciamo. Non è così. Tante orecchie che ascoltano sono potenziali soggetti della storia e dunque possono cambiarla.

 

Lei “unisce” tre cose che hanno caratterizzato le ultime estati della sua vita: un’operazione alla testa, la nascita del governo gialloverde e la camminata fra l’Appennino tosco-emiliano. Cosa rappresentava per lei l’estate fino a quegli anni? E cosa rappresenta oggi?

Sono cresciuta in una famiglia operaia col babbo molto legato alla terra. L'estate è il caldo nei capannoni  della fabbrica, il sudore, le ambite ferie, i pomodori succosi. L'estate per me è sempre stata una finestra che si apre sul riposo e la raccolta di cose buonissime nell'orto. Ricordo una battuta del becchino del paese che quando veniva chiamato al cimitero diceva, ma che si muore a luglio? L'estate non sembra fatta per ammalarsi, per morire, per soffrire, per commettere atrocità. So ora invece che tutto è possibile e anzi, proprio perché distratti da un ideale estivo, si concretizza come la stagione migliore per decomporre corpi, per dimenticare.

Un viaggio nel corpo vivo dell’Appennino

«Noi ci mettiamo in cammino per conoscere la storia delle stragi e la nostra». Perché, secondo lei, oggi è ancora difficile costruire una memoria condivisa al di là di divisioni e barricate?

Per decenni nel nostro paese si è lavorato per rimuovere la storia, per manometterla. Un altro tipo di violenza sta proprio nell'impedire il racconto, nel bloccare il processo per farlo diventare collettivo. Le stragi nazifasciste a lungo sono state un rimosso, basti rammentare l'armadio della vergogna con centinaia di fascicoli su ciò che era avvenuto in tutto il paese prima della Liberazione e che i processi ci sono stati solo a partire dal nuovo secolo. Eppure solo il racconto ha permesso ai sopravvissuti di elaborare e farsi testimoni. L'indicibile ha trovato orecchie. Bisogna allenare le orecchie, soprattutto le acerbe, per impedire che si perda tutto.

 

La sua è stata anche un’immersione nei luoghi della Resistenza. Come si è sentita ad attraversarli?

Non sono luoghi neutri, rimescolano dolore, orrore, sono stati scenari efferati e ne portano vividi i segni. Sono i territori della Liberazione dall'oppressione del fascismo e della semina della nostra Costituzione. Tutto ciò mi si è rimescola dentro, ne ho sentiti gli echi, fra il verde che fa da balsamo sugli occhi e il silenzio che c'è adesso. Però ho compreso che ho potuto camminare in pace grazie a chi quei territori gli ha liberati e che comunque certi pensieri non sono leggeri negli zaini. Quando nel sentire comune ci si lamenta che gli oppressi di oggi non hanno memoria, che votano a destra, che preferiscono i centri commerciali a certi cammini, mi viene rabbia. Cerchiamo di migliorare le vite materiali, liberiamoli da pesi e sofferenze e redistribuiamo la memoria e la libertà di approfondire. Altrimenti rischiamo che portare la memoria sia solo un esercizio borghese di chi può permetterselo. In più ho ragionato molto sulla tutela dell'ambiente. Con l'avanzare dell'età dei testimoni e sopravvissuti, delle partigiane e dei partigiani, rimangono i territori e vanno ascoltati e preservati proprio come fossero corpi vivi.

 

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Cosa sono per lei il camminare e la montagna?

Il cammino per me è un metodo di indagine. Mi fa riequilibrare ogni senso del corpo, come ripulire il foglio per scrivere. Mi riattiva. La montagna, l'Appennino è casa, è grembo, è rifugio, è orgoglio e testa alta, è valore, è orizzonte, è curiosità di conoscere, di andare oltre. Capisco molto bene quando i Curdi dicono che gli unici alleati che hanno sono le montagne.  Sono compagne che non tradiscono se le rispetti.

 

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