Un viaggio alla ricerca del padre. “Azzorre” di Cecilia M. Giampaoli
8 febbraio 1989. Il boeing 707 dell’Indipendent Air di Atlanta è pronto a decollare da Orio al Serio con destinazione Santo Domingo. Sono anni questi in cui viaggiare è un lusso ancora riservato a pochi, anni in cui non esistono compagnie aeree low-cost né i social network e partire per una vacanza verso un’isola tropicale è qualcosa che non tutte le persone possono permettersi di fare. E tuttavia, quella che doveva essere una vacanza spensierata si trasforma presto in tragedia. Il decollo di quest’aereo sarà infatti senza atterraggio. Il velivolo si schianterà sulla collina del Pico Alto. Avrebbe dovuto fare una sosta per scalo tecnico per il rifornimento di carburante sull’isola di Santa Maria delle Azzorre, ma qualcosa chiaramente andò storto.
Dei 144 passeggeri a bordo, di cui sette membri dell’equipaggio, nessuno si salvò. Se fossero esistiti gli smartphone i familiari delle 144 vittime avrebbero appreso della sciagura in tempo reale, invece furono informati poco alla volta, così come poco alla volta vennero chiamati per recarsi a identificare i resti dei loro cari sparpagliati intorno alla folta vegetazione della collina. Ci vollero sei giorni di lavoro per recuperare i corpi e poi ancora sei mesi per disinfettare il bosco. I corpi erano talmente dilaniati che riconoscerli richiese un lavoro difficoltoso e straziante. I familiari si batterono affinché la verità venisse a galla e fossero chiarite le cause reali del disastro e con il tempo la verità giunse come una nuova e ardua sentenza. L’inchiesta stabilì che l’impatto era avvenuto per diverse ragioni: quel giorno Pico Alto era avvolta da una fitta nebbia; che vi fu un sovrapporsi di voci tra i membri dell’equipaggio e la torre di controllo; e che infine, mentre l’aeroporto di Santa Maria comunicava di tenere una quota di tremila piedi, il pilota ne mantenne invece duemila. Che si sia trattato di un errore umano o di cause naturali, quel che è certo è che in questa tragedia 144 persone persero la vita, e una bambina di sei anni quell’8 febbraio del 1989 perse il proprio padre.
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Dinanzi a un lutto scattano sempre naturali meccanismi di autodifesa e di protezione, soprattutto quando si è bambini e non si è ancora in grado di comprendere realmente l’accaduto e affrontarlo. La mente innesta delle barriere che fanno sì che si possa temporaneamente andare avanti, ancor prima di elaborare il lutto. Tuttavia, arriva un momento in cui la vita invita a fare i conti con il proprio vissuto. Ed è questo che avviene a quella bambina, il cui nome è Cecilia M. Giampaoli, venticinque anni dopo la tragedia. Decide di partire e di recarsi sul luogo dell’accaduto. Azzorre (Neo. Edizioni) è il racconto di questo viaggio.
«Un aereo sorvola l’oceano. È partito da Bergamo diretto a Punta Cana. L’equipaggio si prepara a fare scalo alle Azzorre sull’isola di Santa Maria. Alle 13:08, ora locale, un boato. L’aereo si schianta contro il versante di una montagna. Niente fiamme, nel bosco cala il silenzio. 144 persone perdono la vita, io perdo mio padre».
Del padre Cecilia conserva pochi ricordi, ma proprio per questo sono diventati per lei preziosi. Il viaggio compiuto da questa donna è fatto di persone e luoghi, testimonianze, ricordi, reticenze, incontri. È un viaggio intrapreso nella speranza che possa esistere una verità liberatoria, che le consenta di elaborare il lutto e fare pace con il proprio passato. «Non ho un vero programma per questo viaggio e seguire il corso degli eventi mi sembra comunque la soluzione migliore, l’unica».
La vita è fatta di gioie e dolori; spesso dietro la sofferenza si celano significati nascosti che sul momento non capiamo, ma che sicuramente cambiano il nostro essere facendoci diventare le persone che siamo. Cecilia non si è recata nelle Azzorre per riportare in vita il padre. Sa perfettamente che il passato è passato e non è possibile mutarlo. Sente tuttavia di avere «un conto in sospeso con questo posto. Nel male e nel bene sarei diversa se non fosse successo. Non sarei io».
Azzorre è un romanzo autobiografico narrato con una voce che in alcuni passi disarma, tocca, commuove.
«Sull’isola avevo ascoltato racconti e punti di vista così diversi che certe volte non sembrano descrivere la stessa storia. Con il passare dei giorni, la questione del vero e del falso mi era sembrata sempre più complicata. Finché, sul finire del viaggio […] un’idea chiara e apparentemente incontrovertibile si era fatta largo tra le altre: la verità non la posso conoscere perché non riesco a vederla per intero. Non potrò mai sapere tutto».
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Non è tanto la verità a essere determinante, quanto il modo in cui noi scegliamo di vedere le cose. Se il passato non può essere cambiato, il presente può però influenzare le nostre scelte future, prima che anch’esso diventi passato. Ecco allora che questo viaggio diventa per Cecilia un modo per alleggerire i propri sentimenti, liberarsi dal dolore taciuto per anni causato dalla prematura scomparsa del padre e riuscire così a riconciliarsi con se stessa.
Per la prima foto, copyright: Leonor Oom su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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