Un viaggio a ritroso nella storia di una famiglia. “L'unica notte che abbiamo” di Paolo Miorandi
Pubblicato da Exorma Edizioni a inizio di quest'anno, L'unica notte che abbiamo di Paolo Miorandi è uno dei nuovi prodotti della collana “Quisiscrivemale”.
E la filosofia, anzi l'idea base di questa collana è talmente rivoluzionaria e anticonformista rispetto alle leggi del mercato letterario di oggi, da potersi quasi rappresentare come un manifesto. Una rottura con la tradizione del best seller e della narrativa odierna insito nel nome della stessa: “Qui si scrive male”. Certo non bisogna pensare che tutto quel che viene pubblicato è stracolmo di strafalcioni grammaticali. Piuttosto i contenuti di questa narrativa recuperano una certa irriverente carica vociana e avanguardistica. Così si evince dalla breve dichiarazione presente sul sito: «In un panorama editoriale sempre più intricato e difficile da interpretare, Exòrma riunisce autori, diversi tra loro, che decidono di non sottostare al vincolo della “storia” a tutti i costi e abbiano voglia di scrollarsi di dosso la preoccupazione del “come va a finire”, sudando caparbiamente sulla lingua, raccogliendo la sfida. Vogliamo riconsiderare la narrativa come “una delle possibili tentazioni della prosa” della quale rintracciare esempi vitali; trascurare le scritture sfiancate e addomesticate alla necessità del farsi vedere; sbarrare il passo all’omologazione dei contenuti, alle strettoie dei generi».
Ovvero, più che lo spannung della trama, più che l'epilogo e più che lo schema principale di tutti i romanzi moderni si dà grande spazio alla straordinaria adattabilità ed espressività linguistica della nostra lingua. Pochi contenuti omologati e il tutto indipendentemente dal genere.
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Bene. Per l'intarsio linguistico, potremmo dire che L'unica notte che abbiamo è il capostipite o l'exemplum di questo tipo di scrittura. Perché Paolo Miorandi scrive molto bene. Colpisce delle sue lunghe digressioni e sequenze riflessive la poeticità della rappresentazione. Delle immagini che adombrano il paesaggio lacustre o collinare. In alcuni stacchi sorprende anche la sinuosità della pennellata scrittoria. E tanto è maggiore l'effetto se si pensa che la voce narrante (forse quasi coincidente con lo scrittore stesso) è ben distante per usi, costumi e comunicazione dal tempo della storia. Tanto sono così icastiche le vivide rappresentazioni della località in cui la vicenda è improntata da far sembrare, in alcuni momenti, di avere a che fare con un romanzo calviniano, dentro al romanzo stesso. Ovvero la sequenza introduttiva dei capitoli, con il potente impatto in prima persona, è talmente elaborata, con le sue rappresentazioni metaforiche del paesaggio montanaro, ventoso e notturno da dar l'impressione che ogni volta ci sia la genesi di un nuovo romanzo.
E d'altronde lo scrittore in quanto a labor limae e contemporaneamente sperimentazione linguistico-espressiva non manca certo di coraggio.
Perché, volente o nolente, L'unica notte che abbiamo di Paolo Miorandi è a tutti gli effetti una rivisitazione del flusso di coscienza joyciano trasposto in una storia famigliare italiana. E qui, se da una parte, non si può non ammirare il coraggioso esperimento di modifica spontanea e rapida della focalizzazione narrativa, d'altra parte l'esperimento va oltre l'accettabile della comprensibilità. Cosa significa questo? Che la variatio del punto di vista di chi parla è talmente sorprendente che all'inizio il lettore (del romanzo di oggi) non ci capisce niente. Nel senso che fra una sequenza e la precedente non c'è nessuno segno di stacco che faccia capire chi stia parlando in quel dato momento (Ernesto, il fratello, la mamma, la figlia?).
Anche perché, in un'accezione ancor più complessa del discorso riportato, il mutamento di prospettiva è quasi caleidoscopico. E per giunta in prima persona. Per cinque minuti parla uno; due minuti dopo sugli avvenimenti della stessa giornata parla un altro; poi magari ancora quello di prima e così via...
E l'originalità va evidenziata e criticata. Ora, senza svelare troppo la trama di questa vicenda famigliare, c'è da dire che tutto parte da un album di fotografie di un'anziana signora. Che vive sola nella sua casa di montagna e che casualmente incontra il narratore.
Dunque va riconosciuto a Paolo Miorandi l'alto livello di difficoltà di creare un pensiero libero o meglio un flusso di coscienza sempre in prima persona a partire da alcune semplici fotografie novecentesche. Non sappiamo, come sempre in questi casi, quanta sia la verità di ciò che è stato riportato dalla voce della signora (protagonista non principale, ma definibile, con metafora cinematografica, migliore attrice non protagonista) e quanto, invece, sia da ricondurre alla creazione della verisimiglianza romanzesca. Resta il fatto che la capacità di raccontare e immergersi, passo dopo passo, fluidamente nella storia è eccezionale. Rappresenta insomma l'esperimento linguistico-strutturale più riuscito. Soprattutto perché il narratore (mutevole) è sempre in prima persona.
In realtà da quello che si sa, buona parte del costrutto narrativo deriva dalle vive parole della signora del paese. E un'altra parte più che abbondante proviene dalle scartoffie del padre di lei, che la stessa ha riordinato per far conoscere questa storia. Quindi non solo le fotografie, ma lettere, diari, appunti e documenti che raccolgono in sé quasi un secolo di storia. Se si tiene conto che la mamma dei due giovani figli è nata pressappoco prima del Novecento, il racconto di Ernesto in guerra è del 1918 e che la vita infelice della figlia di lui è tutta ambientata nel secondo dopoguerra.
Ecco, perché, quando all'inizio del paratesto appare in distico la seguente affermazione: «A chi mi ha affidato questa storia. Che la possa ritrovare e dimenticare» ci si chiede se il tono sentenzioso è della stessa protagonista. O se sia una dissimulazione letteraria, d'ispirazione manzoniana, dello scrittore stesso.
Ma, rispettando, l'aspetto anti-tradizionalista della collana, la storia del romanzo, di fondo, è una delle mille rintracciabili nelle cartoline e nelle dediche e nelle epistole dei nostri avi. Insomma chi si aspetta che si arrivi a un punto di colpi di scena o di stravolgimento impensabile ne resterà un po' deluso. Chi, di contro, cerca originalità, semplicità espressiva (con qualche raro tocco escursionistico verso il basso o l'alto) e soprattutto cerca una testimonianza reale delle Guerre, degli aspetti sociali e dell'animus di chi visse all'epoca dei nostri nonni o bisnonni, ne resterà appagato.
E allora quella storia che secondo “qualcuno” va gettata nel fuoco, è meglio farla conoscere. Deve aver pensato così Paolo Miorandi quando ha scritto L'unica notte che abbiamo.
E se qualcuno si domanderà il perché di una scelta così senza cronologia e linearità. Nel libro, in modo schietto, lo spiega il narratore a proposito del modo di raccontare dell'anziana signora: «non si preoccupava di conferire alla storia un andamento lineare o un ordine cronologico; sembrava piuttosto che di volta in volta si lasciasse guidare dall’immagine che in quell’istante era affiorata alla superficie della sua coscienza e di cui cercava una sorta di corrispettivo tra le foto presenti sul tavolo. In questo modo mi aveva fatto via via partecipe di quanto aveva scoperto riguardo alla sua famiglia tessendo davanti a me un arazzo dalla trama frammentaria e lacunosa e lasciandomi intendere che fosse proprio la natura aperta e in gran parte ambigua del materiale ritrovato nella valigia a spingerla a compiere quella sua paziente opera di ricostruzione e assemblaggio».
E più avanti aggiunge, come dicevo prima, quasi discorso conscio riportato: «Iniziava a raccontare senza anteporre convenevoli o frasi di circostanza né spiegando le ragioni – quasi non ce ne fosse bisogno – che la spingevano a confidare le vicende della propria famiglia». Come si può comprendere, lo scrittore rispetta al massimo grado proprio questo caos mentale. Così la genuinità della storia è pari a quella del racconto orale.
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D'altronde il collage di vita, di sentimenti, di storia, di tradizioni e di costumi di questo romanzo è definibile come “una commedia della disperazione del vivere”. E dunque l'esperimento non si fa solo joyciano, ma anche pirandelliano. Solo che in un paese di persone contadine, brulle e “sempliciotte” non poteva entrare la misticheggiante filosofia dell'essere di Pirandello. E quindi negli scorci di vita, nel flusso passato-presente, nelle foto mute che parlano, nei discorsi diretti e indiretti, nei pensieri sviscerati e nella filatura tessile del mosaico linguistico si ritrova un senso della vita (felice o triste) che i libri di storia con date, dichiarazioni e battaglie non possono rendere.
Per la prima foto, copyright: Laura Fuhrman su Unsplash.
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