Un’umanità fragile. “Quando arrivi, chiama” di Anna Mittone
«Non c’è più nessun suono in macchina, non sento il motore né la radio né la presenza di Michele, solo i miei singhiozzi e il guaito che mi esce dalle labbra, un guaito da animale ferito rintanato in un buco così profondo che è impossibile vederlo, un guaito che mi rimbomba forte nelle orecchie come fosse l’unico rumore del mondo.»
Un’umanità fragile quella narrata nel libro Quando arrivi, chiama di Anna Mittone (Mondadori). Un’umanità in crisi che mostra lucidamente le sue fratture, i suoi inganni e le sue disillusioni, ponendo il lettore in un vortice frammentato e caotico di pensieri che si susseguono in modo febbrile alla ricerca di un senso, di un appiglio a cui ancorarsi nel momento in cui la disperazione è tale da non lasciare spazio ad altro, se non ai ricordi e a ciò che è stato e che avrebbe potuto essere.
La protagonista del libro è Silvia, donna creativa e poco incline alle convenzioni sociali che, dal suo punto di vista, incastrerebbero una donna-madre in una serie di rituali non necessari. Mamma affezionata alla figlia adolescente Emma, ma non troppo da soffocarla, lasciandole libertà nel suo agire da ragazza ribelle, poco incline ai sentimenti, nascosti in realtà dietro a una corazza, poi non tanto invisibile, di domande irrisolte, di sofferte mancanze d’amore causate da due genitori che la amano, ma che forse amano un po’ più loro stessi. Ed è da ciò che derivano i pensieri di Silvia durante il lungo viaggio verso Parigi con lo sconosciuto, ma così affine, Michele. Un viaggio reale a cui se ne affianca uno mentale a ritroso e a spezzoni, in cui la protagonista riporta a galla una Emma bambina, innocente e spaurita, che affronta la notizia della separazione dei suoi genitori, insegnando a tutti i lettori quanto i bambini possano essere molto più coraggiosi degli adulti ne vivere situazioni difficili, di quanto spesso portino sulle spalle gli errori e le fragilità dei loro genitori con incredibile forza e sopportazione.
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Quella che Silvia, ora, si trova davanti è un’Emma diversa, più grande e autonoma, ma così fragile in ogni riga del romanzo, così bisognosa, ancora, di affetto e di rassicurazioni. È quest’Emma che si ritrova vittima di un attacco terroristico a Parigi, dove la mamma cerca di raggiungerla per affrontare una realtà che piomba all’improvviso su di lei senza lasciarle scampo e respiro. Così, è in questo lungo e frastornato viaggio che tutto viene riportato alla luce, l’interiorità è messa a nudo e si capisce come Silvia, forse, sbagliava a considerare la Emma bambina e la Emma adolescente separate l’una dall’altra, poiché esse coesistono nella stessa persona.
Un romanzo particolare, quello di Anna Mittone, in cui il rapporto madre-figlia viene indagato in una prospettiva diversa, senza pretese didattiche, fornendo un flusso di coscienza ai lettori che lascia, talvolta, sbigottiti e frastornati poiché i comportamenti di Silvia sono quelli di una donna non convenzionale, sicuramente affezionata alla figlia, ma che ha vissuto il ruolo genitoriale con insofferenza e sofferenza, assumendo atteggiamenti da madre non canonica.
Un’umanità che traspare in ogni pagina con impetuoso realismo divenendo a tratti eccessivo e disarmante. L’umanità insofferente di Silvia come donna e come madre, incapace di gestire e far collimare i due ruoli senza perdere di vista l’altro, l’umanità di una donna di mezz’età che cerca di ritrovare la strada per la felicità. L’umanità di una ragazza ribelle, di un’adolescente insicura, dalla corazza dura ma dall’animo bambino. L’umanità collettiva, quella di tutti noi, in cui eventi di brutalità inattesa e inaspettata si affacciano nei giorni di sole, portando terrore e devastazione, senso di impotenza e incapacità di realizzare ciò che sta accadendo. Perché è questo l’altro grande tema affrontato nell’opera, la fragilità di tutta l’umanità, la sua incapacità di far fronte a situazioni così grandi e così tremende da paralizzare chiunque vi si trovi davanti.
«Quella scarpa mi spezza il cuore, così sola, smarrita, penso alla donna che la indossava, che l’ha scelta, comprata, infilata quella mattina pensando che fosse una buona idea […] forse c’era qualcuno di speciale ad aspettarla all’arrivo, un fidanzato, un amante, un nuovo datore di lavoro e voleva essere bella, elegante, anche un po’ sexy e invece si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato.»
Una scarpa diventa il simbolo di una vita umana, una vita probabilmente spezzata o ferita, ignara di ciò che sarebbe accaduto, poiché è in questo che sta la fragilità umana, in questa descrizione e nei sentimenti che essa suscita.
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Ma, come anche il finale del romanzo insegna, la vita va affrontata e al male bisogna sempre reagire con il bene, con la positività e con la forza che solo chi è caduto, solo chi ha sperimentato la sofferenza e la paura, quella vera, può possedere. La vita sarà anche breve e noi uomini saremo fragili, ma le tenebre e la violenza vanno combattute con la luce, con il bene, con uno spirito di forza comune e con l’amore che lega ognuno di noi.
Per la prima foto, copyright: Mael BALLAND su Unsplash.
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