Un romanzo sulla fragilità delle nostre certezze. “Nella tormenta” di David Park
In Irlanda nevica così tanto che i voli sono stati cancellati e per andare a recuperare suo figlio Luke, rimasto solo e malato nella sua camera dello studentato dell’università inglese in cui studia, Tom è costretto a salire in macchina e ad affrontare le strade ghiacciate dell’Irlanda del Nord e dell’Inghilterra.
Comincia così Nela tormenta, l’ultimo romanzo dell’irlandese David Park, nonché il primo a essere tradotto in italiano, grazie all’empatica traduzione di Manuela Faimali, che restituisce molto bene l’atmosfera sospesa e malinconica del volume, e all’editore Bollati Boringhieri.
Al volante, come tutti noi sappiamo bene, i pensieri si rincorrono e la strada, per lo più, scivola da sola sotto le quattro ruote dell’auto, guidata dalla voce metallica e naturale del navigatore satellitare. Allora Tom si rende conto di essere da solo, in una scatola di metallo, gomma e vetro, si rende conto che fuori imperversa la tormenta e che alla sua storia non può sopravvivere senza affrontare certe questioni: il lavoro, quello di fotografo, che di rado gli dà soddisfazioni; la storia d’amore con sua moglie, tanto a lungo coltivata e ora costantemente in bilico; e i suoi figli, il più grande in particolare, che non è ben chiaro che fine abbia fatto.
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Tom è un fotografo professionista e ciò lo conduce verso una continua riflessione sulla fotografia, sulle conseguenze della sua diffusione globale, sui cambiamenti dovuti alla recente pervasiva possibilità di scattare immagini con un semplice smartphone, lo porta a pensare alla funzione che le immagini possono svolgere oggi nelle nostre vite, alle domande che rivolgiamo loro, alle diverse risposte che possono dare alle nostre domande.
«La gente non capisce le fotografie», pensa Tom durante il suo interminabile viaggio in macchina. «Credono che fermino un momento nel tempo mentre quello che fanno in realtà è liberare quel momento dal tempo e ciò che l’obiettivo ha immortalato si sottrae per sempre al suo scorrere incessante. E così esisterà sempre, vivrà esattamente com’era in quel preciso secondo, con lo stesso sorriso o lo stesso broncio, lo stesso colore del cielo, lo stesso gioco di luci e ombre, lo stesso identico pensiero o battito del cuore. È l’emblema della perfezione che libera l’eterno nell’improvvisa immobilità dello scatto della macchina. Trovo una consolazione in questo e troverò una consolazione ovunque mi si presenti».
La fotografia salva, insomma, un momento, una situazione, da quell’inesorabile tempesta che incessantemente spazza via il presente, lo trasforma nel passato e che piano piano lo indebolisce, colpo dopo colpo, calcio dopo calcio.
La questione dei figli, poi, si rivela complessa. «Tirare su un figlio – confessa a un certo punto Tom – non è come guidare questa macchina dove ho una voce che mi indirizza, i solchi delle altre auto da seguire nonostante la neve, segnali che mi indicano quando fermarmi e quando proseguire, avvertimenti su possibili pericoli. In quel caso hai una specie di bufera di idee disorientanti e contrastanti, e anche se credi di sapere quale sia la direzione migliore da seguire ben presto ti accorgi di esserti perso e i punti di riferimento familiari in cui riponevi la massima fiducia sono scomparsi dietro un muro bianco».
Non ci sono certezze, non ci sono guide, il percorso è tortuoso, confuso, e l’unica cosa che possiamo fare, sembra dire lo scrittore, è lasciare andare. Tentiamo con strenuità di controllare l’angolo di mondo che ci pertiene, per quanto limitato e circoscritto non possiamo sempre conservare il comando della situazione.
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Questo di David Park è un romanzo sulla fragilità, sui limiti, sulla perdita, un romanzo in minore, delicato e affascinante, come quella neve che blocca a terra gli aerei pronti a prendere il volo e che rende le auto precarie come le gambe nella vecchiaia, un romanzo che difficilmente può lasciare indifferente il lettore, che – di fronte all’impossibilità di Tom di mantenere il controllo della propria vita, di essere sempre all’altezza di quello che la sua famiglia gli chiede e di quello che le sue aspirazioni lo avevano costretto a sperare per il suo futuro – non può che ripensare alle proprie fragilità, alle proprie impossibilità, alle proprie aspirazioni. Come dice nel XXXIII dell’Inferno il conte Ugolino a Dante, cominciando il racconto della tragica fine sua e dei suoi “figli”, «e se non piangi, di che pianger suoli?».
Per la prima foto, copyright: Steve Long su Unsplash.
Per la terza foto di Mal McCann, la fonte è qui.
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