Un romanzo che racconta di noi. “Eravamo tutti vivi” di Claudia Grendene
Eravamo tutti vivi è il romanzo d’esordio di Claudia Grendene, pubblicato da Marsilio editore.
È un romanzo difficile nella sua formulazione, non nella lettura – anzi, si aggiunge, piuttosto scorrevole e dinamico – perché l’autrice non ha scelto di parlare in prima persona, stilare un’autobiografia romanzata, colorata e picaresca, sollevare i drammi e farsi carico dei suoi sviluppi, né ha scelto di raccontare una storia con una voce narrante che supervisiona le sue creature.
Qui ha osato tirare e attirare il lettore nel labirinto di un romanzo corale e intrecciato come l’ordito e la trama di un tessuto.
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È rappresentata, infatti, la storia di sette ragazzi, sono Max, Alberto, Elia, Chiara, Isabella, Anita, Agnese in una Padova, ricca e confusionaria, snob ed elitaria, parvenu e politicamente impegnata, che attraversa un ventennio, dal 1993 al 2013, di stravolgimenti incontrollabili, di alienazioni inevitabili, di sconfitte e di fallimenti irreparabili, un periodo in cui cambia l’Italia, in cui cambia il mondo.
Padova è il centro di una trasformazione in cui i personaggi sono pedine, vittime, questa volta consapevoli, dello sfacelo cui si va incontro, che si sta attraversando.
Muoiono i partiti, i movimenti di massa, gli ideali e le ideologie scendono a ranghi meschini, o tutt’al più sono tradotti in slogan passeggeri e propagandistici, nella migliore delle ipotesi diventano spunti nostalgici.
Il precariato, occupazionale ed esistenziale, domina l’emergente generazione che scalcia via quegli ideali rivoluzionari sui quali ci si è costruiti la propria identità; che fa passare da slanci libertari a una realtà frustrante e avvilente.
Viene in mente una frase di John Lennon «la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri programmi».
Quindi è politica, è società, è costume, è cultura quella che cambia nella Padova bene, nella Padova ricca, a un tiro di schioppo da qualunque altra realtà italiana dove imperversano scontri e contestazioni di ogni natura, espressione di un disagio collettivo piuttosto che un ideale o un diritto offeso.
Dentro questa cornice si sviluppano amori, fughe, tradimenti, i figli, troppi figli, amanti, troppi amanti, abbandoni, troppi abbandoni, rancori, matrimoni non desiderati, famiglie ingombranti e invadenti, responsabilità eccessive, pentimenti, fallimenti, delusioni che come colori di un caleidoscopio si amalgamano conservando sì traccia di una loro autonomia ma inevitabilmente dipendenti l’uno dall’altro.
Poi succede che Max muore. Succede che i protagonisti sono costretti a fare il punto della situazione, perché la vita scivola e vola via lasciandoli solo spettatori degli eventi che loro, prima di tutto, hanno vissuto.
Le domande incespicano tanto sono numerose e affastellate quasi avessero una scadenza, oltre la quale non è più possibile trovare delle giustificazioni. La vita è qualcosa di diverso, o di più, di un traguardo da rincorrere o da afferrare.
Sono raccolti al funerale di Max gli amici e presente, quel giorno, è il loro passato fatto di legami e di progetti che si destano e si rinfocolano di una nuova energia che li proietta, auspicabilmente, verso un futuro meno ignoto.
Eravamo tutti vivi è un romanzo generazionale, per questo doloroso, vero, per merito del quale – o per colpa del quale – è inevitabile non riconoscersi.
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Non vedo possibile non rivedersi in Isabella e la lotta per un posto di lavoro a scuola con gli umori altalenanti di una legislazione che cambia annualmente, né vedo possibile non identificarsi in Anita incinta di due creature e affatto convinta che sia la cosa migliore della sua vita visto che avrebbe dovuto fare altro, curare altri lati della sua individualità.
Dicevo, romanzo generazionale, perché compone una generazione di cui volente o nolente il lettore fa parte, anche laddove si desiderasse, così per indole, tenersi distante dai personaggi letterari, più o meno inventati che siano, e finire la lettura con la locuzione tipo noli me tangere.
Per la prima foto, copyright: John Schnobrich.
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