Un ritratto umano di Corrado Alvaro
Ricostruire un ritratto umano di Corrado Alvaro può risultare abbastanza difficile data la sua personalità abbastanza schiva che risentiva delle origini calabresi.
Ma essere schivi non significa essere completamente refrattari a qualsiasi forma di apertura all’altro. Ed è così che, tra il 1944 e il 1945, l’autore di Gente in Aspromonte, stringe amicizia con il giornalista e critico letterario Geno Pampaloni.
A ricordare questa relazione, offrendo anche un breve ritratto di Alvaro, è lo stesso Pampaloni nell’introduzione all’edizione del Club degli Editori di Quasi una vita, opera che valse a Corrado Alvaro il Premio Strega nel 1951.
Oltre a riflettere sull’opera di Alvaro in generale e su Quasi una vita in particolare, Pampaoli offre un ricordo affettuoso e forse inedito fino a quel momento dello scrittore calabrese.
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Non vorrei chiudere questo breve ritratto di Corrado Alvaro senza far cenno a un ricordo personale che mi accompagna da molti anni. Nell’inverno ’44-’45, chiusa la mia seconda avventura militare (Corpo italiano di liberazione) io passai a Roma qualche mese difficile in cerca di lavoro: riambientarsi, in un’Italia ancora sconvolta dalla guerra, per un giovane come me partito di casa cinque anni prima, a vent’anni, senza arte né parte, era molto arduo. Andavo spesso, in quel periodo, a trovare Alvaro che, occupandosi di un’iniziativa editoriale per l’editore Capriotti, mi dava qualche cosa da fare. Egli aveva allora il figlio tra i partigiani, di cui era senza notizie: e questo acuiva senza dubbio in lui, nei miei riguardi, il sentimento paterno. Ho passato molte ore nel suo studio, con la celebre finestra aperta sulla scalinata di Trinità dei Monti: seduto alla scrivania, riempiva pazientemente di tabacco certe sue cartine per sigarette, e mi parlava dei suoi libri, o dell’Italia da costruire, più spesso taceva.
L’uomo era identico allo scrittore: mai sentenzioso, o oracolare, o troppo sicuro di sé; nelle sue parole incalzavano le immagini, calamitate da un’idea a raggiungere la fantasia. Alvaro era uno degli uomini dei quali tutto, anche il silenzio, trasmette il senso di una passione. Era un pessimista voglioso, un utopista insofferente.
La sua vera passione civile era l’arte, ma pensava che senza una nuova società non sarebbe nata un’arte grande, neppure alla sua scrivania. Nel suo j’accuse c’era il risvolto di una delusione. E nella sua saggezza c’era un che di fremito adolescente, pronto ad accendersi. Sembrava pessimista quasi per timidezza, ed era in realtà votato alla speranza.
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Il giorno di Pasqua fui invitato a pranzo. Dalla Calabria gli avevano portato le cose familiari e genuine di laggiù, la farina per la pasta, la carne, il vino. Lui mi serviva di continuo, le mandorle, i fichi, i taralli: il pranzo non finiva mai; mi guardava e mi esortava, che ne mangiassi a sazietà. La giovinezza, nel mondo dei padri, ha bisogno di nutrimento e di affetto. Era come se il concentrarsi sul mio pasto di vera fame gli servisse a tener lontano un pensiero di affanno che riguardava suo figlio, o l’ombra fastidiosa di un’analogia. Nel suo sorriso assorto era certamente il ricordo della sua giovinezza di povero, e il ricordo del figlio lontano che forse non aveva di che sfamarsi: in quel mio mangiare le cose antiche della sua terra egli sentiva forse qualche cosa di propiziatorio, di anticamente augurale. Ma, mentre sedevo al suo tavolo, al posto del figlio, egli sembrava riconoscere in quella sostituzione di persona qualche cosa che inseguiva da sempre nei suoi libri, l’amaro capriccio di un’allegoria, la «favola della vita».
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