Un ritratto molto particolare di Cesare Zavattini e il suo rapporto con la madre
Cesare Zavattini è stato forse uno degli sceneggiatori italiani più apprezzati anche all’estero, al punto da guadagnarsi ben tre candidature al Premio Oscar nella categoria “Miglior sceneggiatura” per Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1952), tutti diretti da Vittorio De Sica.
A restituirci un ritratto molto particolare di Cesare Zavattini è Goliarda Sapienza in uno degli stralci dei suoi taccuini contenuti nella raccolta Il vizio di parlare a me stessa, edito da Einaudi.
Goliarda conobbe Zavattini grazie alla sua attività come attrice di cinema e teatro, ma il loro rapporto s’intensificò quando Sapienza iniziò una relazione con Citto Maselli, col quale Cesare collaborò alla realizzazione del film La donna del giorno (1956).
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Durante una conversazione con Isa Miranda, avvenuta nell’ottobre del 1989 – a pochi giorni dalla morte di Zavattini – e che Goliarda annota con precisione nei suoi diari, le due donne iniziano a parlare dell’amico comune:
Dopo chilometri di silenzio Isa con voce commossa dice: «Zavattini è tanto che non lo sento».
«Anch’io pensavo a lui, – dico io, – proprio in questi giorni avevo desiderio di sentire la sua voce».
«Mi sento in colpa, – fa lei. – Con la morte di Andrea, quest’anno ho dimenticato di fargli gli auguri per il compleanno, a settembre. Mai avevo dimenticato quella data, mi sento proprio in colpa».
E subito la Miranda richiama alla memoria una delle caratteristiche più marcate di Zavattini, la sua voce sempre tremendamente alta:
Ascoltiamo un attimo la tristezza che echeggia nella voce di Isa e nella mia, poi lei cerca di pilotare il discorso su quel grande amico fedele, così ricco di vita e di umori, che è il nostro Cesare: lodi inframmezzate ai suoi buffi difetti e curiosità, fra le quali quella di collezionare bottiglie di liquori («Ne ha una stanza piena!»), di lavorare la notte e dormire la mattina, e il suo modo di parlare a voce così alta da sembrare un tuono. «Quando mi dettava i suoi soggetti inventandoli lì per lì, a volte sentivo solo il brontolio tellurico della sua voce, e non capivo più il nesso delle frasi che dovevo scrivere. Allora mi fermavo e lui: “T’ho intronato la testa?” “Eh sì, non capisco più niente!” E lui, vergognoso (a volte si vergognava come un bambino di nove anni): “Hai ragione Isa, vedrai che ora parlo più basso. È che quando le idee mi si fanno chiare in testa, anche grazie a te, succede che per l’emozione i polmoni mi si riempiono di una felicità così potente da far esplodere la mia voce senza che io ne abbia la volontà”».
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È a questo punto che Goliarda Sapienza ricorda il modo di lavorare di Zavattini, sempre così incline all’improvvisazione almeno nelle fasi iniziali:
Isa ha lavorato per lui per anni e anni, e ascoltarla è bello per me che per anni e anni ho vissuto il suo: «Ora dico così, quello che mi viene. Invento, senza pudore. Per trovare un soggetto bisogna andare a ruota libera, anche dicendo stronzate, e mo’ attento Citto, seguimi, e unisciti a me senza timore di quello che dici: su andiamo! Io direi che la nostra Caterina all’inizio del film deve essere…» E così si lavorava, urlando appresso a lui, in una valanga di gioia creativa, stronzate e tanta, tanta fiducia l’uno nell’altro.
E come dimenticare la dote più grande di Cesare:
«Ecco, – dico io, – la dote più grande di Cesare è che aveva sempre fiducia nell’altro». E Isa: «Proprio così, ma la cosa più bella era quando veniva deluso da qualcuno. Si ammutoliva un attimo mentre pensava, e poi sbottava impaziente dicendo: “È la vita, Isa, molti tradiscono, ma che fa, la vita è così. O la compri – non so se mi spiego – cioè la compri tutta: cose belle, brutte, fedeltà, tradimento, oppure non la vuoi. Intendo che se ti metti sempre a cercare di prendere-comprare solo il buono – nel grande pacco che la sorte ti offre – non afferri più niente: mi sono spiegato? La vita non si lascia scegliere da chi compra solo i pezzetti buoni: o la prendi così com’è o non vivi. Io adesso ho avuto una delusione, ma che fa, i polmoni mi si gonfiano d’orgoglio, perché anche questa delusione è vita!”».
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È ora che prende vita il ricordo insieme più duro e inteso e tenero di Cesare: il suo rapporto con la madre che Goliarda inquadra non solo come fortemente orientato all’esclusività ma anche come segnato da sprazzi di acceso pudore:
Ma la vita è proprio quello che Cesare Zavattini impersonava, con tanta forza da mettere in crisi anche Citto, che pure non scherza in quanto a dinamismo e idee. Ora che ci penso, le crisi di Citto davanti al vecchio erano date dal fatto che mentre Citto è sempre «mentale», come la sua indimenticabile madre Elena, Cesare aveva anche una grande potenza animale, amava il cibo, il chiacchierare indefinitamente con gli amici, avere figli (tutte cose assolutamente estranee al Maselli), e portava sempre il basco (come Giacomino, il grande pasticcere di Positano).
Teneva la madre nascosta a tutti, come se temesse lo sguardo dei suoi famigliari la potesse consumare; la venerava e a volte magnificava la forza e la bontà di quella nutrice: «È stata una grande nutrice, dal suo corpo sono nato io e lei è il mio albero, da lei ancora succhio il suo latte-linfa che mi fa così forte e grosso». Lei in qualche stanza lontana della grande casa, protetta da occhi blasfemi, felice dei nipoti e della vita, pensava al suo Cesare, proteggendolo da tutti i mali palesi del vivere e da quelli ascosi, colmi di influssi malefici forse più potenti di quelli reali.
E a proposito la cosa più dolce, magica e incomprensibile per molti ma non per me fu alla morte della madre, tre o quattro anni fa. Io lo seppi da Citto, che in fretta dopo la notizia aggiunse: «Ma non gli telefonare, Iuzza, non vuole che si sappia, anch’io l’ho saputo dal figlio, assolutamente deve restare nascosta questa morte… è strano, terribile, ma così vuole lui».
Non mi sembrò strano, allora come oggi mi sembra coerente con Cesare questo atteggiamento. Mi spiego: finché gli occhi, le orecchie, le varie percezioni degli altri non sanno niente, allora quella morte non esiste e la madre resta viva, intatta, là in quella stanza remota della casa. È stato così, lo so. Per lui sua madre era viva e lo proteggeva, e – forse – anche al momento della sua dipartita l’ha avuta accanto al letto, nutrice di vita e maestra di morte, o meglio ancora, un’Arianna saggia che può con un sottile filo di seta amoroso farti uscire senza troppa pena dal labirinto della vita per proseguire il viaggio – o metamorfosi o mutazione – verso questo continente «altro» che ci attende.
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Un ritratto privato e umano di Cesare Zavattini emerge da questi appunti di Goliarda Sapienzache in poche frasi tratteggia l’immagine di un uomo grosso e dalla voce stentorea ma al tempo stesso dotato di grande sensibilità.
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