Un’occasione sprecata. “Vox” di Christina Dalcher
Ho pensato fosse il libro dell’anno e così, incuriosita dall’enorme attenzione che questo libro aveva attirato, ho acquistato anche io Vox di Christina Dalcher, edito dalla casa editrice Nord e tradotto da Barbara Ronca. Non erano state tanto le entusiastiche recensioni ‒ e ce ne sono state molte ‒ quanto la stupenda quarta di copertina:
«Jean McClellan è diventata una donna di poche parole. Ma non per sua scelta. Può pronunciarne solo cento al giorno, non una di più. Anche sua figlia di sei anni porta il braccialetto conta parole, e le è proibito imparare a leggere e a scrivere.
Perché, con il nuovo governo al potere, in America è cambiato tutto.
Jean è solo una dei milioni di donne che, oltre alla voce, hanno dovuto rinunciare al passaporto, al conto in banca, al lavoro. Ma è l’unica che ora ha la possibilità di ribellarsi. Per se stessa, per sua figlia, per tutte le donne.
[limite di 100 parole raggiunto]».
Quel: “limite di 100 parole raggiunto” aveva catturato la mia attenzione. Come spesso accade, l’improvvisa limitazione mi aveva allertato.
Oltre alla mirabolante quarta di copertina e all’ottima operazione di marketing dietro, la lettura di queste poche righe mi aveva suscitato una domanda: Che cosa avrei fatto io se, come la protagonista di Vox, mi fosse stato imposto il medesimo limite? E l’ho acquistato.
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Questa domanda, più forte di tante disquisizioni, aveva portato me a leggerlo e immagino Christina Dalcher a scriverlo. Per tale motivo ritengo che il merito indiscutibile del romanzo sia proprio nell’aver compiuto questa operazione: aver trasformato in materia narrabile una constatazione ‒ le donne non hanno una voce ‒ e aver creato, in potenza, un capolavoro.
Scrivo in potenza perché da lettrice, vicina alle tematiche di affermazione femminile, non posso che esser rimasta delusa nel veder giocata una carta “femminista”, se vogliamo dare un’etichetta, e averne abusato a favore di una logica commerciale che, data l’idea originale e l’intrinseca vendibilità, malamente si spiega.
Nel romanzo, in un’America non troppo lontana, il Movimento per la Purezza ha tolto alle donne la voce. Una volta al potere ha riesumato il culto vittoriano della vita domestica e la donna viene esclusa dalla sfera pubblica e destinata alla vita privata, in quanto “angelo del focolare”, mentre gli uomini ricoprono le postazioni di potere.
«Come donne, siamo chiamate al silenzio e all’obbedienza. Se dobbiamo imparare, chiediamo ai nostri mariti nell’intimità di casa, poiché è peccato che una donna metta in discussione l’autorità maschile voluta da Dio».
E ancora:
«Quando obbediamo al comando dell’uomo con umiltà e sottomissione, riconosciamo che a capo di ogni uomo sta Cristo e che a capo di ogni donna sta l’uomo».
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È difficile perciò non provare rancore per gli uomini, anche se si tratta dei tuoi stessi figli come accade alla protagonista, Jean McClellan, che deve assistere inerme a scene di vita quotidiana via via più spiacevoli che vedono solo un protagonista: il maschio.
«Sonia annuisce e fa una smorfia quando i gemelli ‒ che non capiscono l’importanza di farle domande cui può rispondere con un sì o con un no ‒ le chiedono com’è l’insegnante, com’è la classe, qual è la sua materia preferita. Mi rifiuto di credere che lo facciano apposta, che la tormentino per costringerla a parlare. Ma a undici anni sono grandi abbastanza per capire. E hanno visto cosa succede, quando parliamo troppo».
Così Jean, vicina in particolar modo alla figlia femmina, decide di accettare l’incarico che le viene proposto da un’equipe del presidente preoccupato per l’afasia che, a seguito di un incidente, ha colpito il fratello. È lei la dottoressa più qualificata, ed è perciò l’unica che può cambiare la vita di milioni di donne a cui è stata tolta la voce.
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Senza svelare il finale, posso dire che questo romanzo che inizialmente tanto mi aveva ricordato 1984 di George Orwell e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, non ha la loro forza.
La forza di 1984 non sta proprio in quel finale tanto amaro da iscriversi, in maniera indelebile, nella mente del lettore contemporaneo assuefatto dal lieto fine? La riflessione che suscita non risiede proprio in quell’operazione che Orwell compie annientando ogni speranza?
È questo ciò che rimprovero all’autrice.
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Ho definito questo romanzo un’occasione sprecata, essoha tuttavia due meriti indiscutibili. In primo luogo ricorda quanto sia preziosa la nostra voce e poi rammenta l’uso sciatto che facciamo della nostra lingua. Quante sono infatti le parole che usiamo senza preoccuparci del loro reale significato? Molte, non ce ne preoccupiamo perché, fortunatamente, la nostra realtà è ben lontana da queste distopie. Ma è davvero così? In una società nella quale comunica più una bella immagine che la parola, nella quale c’è un limite, imposto, di caratteri per scrivere un tweet e uno non imposto, ma necessitato dalla volontà di mantenere l’attenzione del lettore, su Facebook, siamo davvero liberi?
Nei ringraziamenti l’autrice si augura che la sua storia abbia fatto un po’ arrabbiare il suo lettore, ben conscia di quanto tale sentimento sia importante in uno scritto di denuncia ma perché allora lasciare tale operazione a metà? In questo modo, servendosi di un bel lieto fine, l’autrice ha chiuso in fretta la storia con il rischio che la rabbia suscitata potesse rivolgersi proprio contro di lei.
Per la prima foto, copyright: Aliyah Jamous on Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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