Un noir in cucina. “Il tortellino muore nel brodo” di Filippo Venturi
Esce per Mondadori l’ultimo romanzo di Filippo Venturi, Il tortellino muore nel brodo. Tra manicaretti tipici della tradizione bolognese e un folto susseguirsi di coincidenze, si dispiega la vita di un uomo che non ritrova più la moglie e quella di un uomo a cui sono mancate le occasioni per poter spiccare il volo e che ora, spinto da un impeto irrefrenabile di rivincita, fa un gesto a dir poco inconsulto. Spettatore, ma anche elemento essenziale nello snodare il bandolo della matassa, è Emilio Zucchini, ristoratore legato alla tradizione, fatto a modo suo e guidato da uno stretto legame tra ciò che è e ciò che fa. Quando la pasta per i tortellini fa le bizze, lui capisce che c’è qualcosa che non va. Occorre essere vigili.
Con uno stile ironico, Filippo Venturi, penna nota grazie alla rubrica che cura per «La Repubblica» e in cui recensisce gli avventori di La Montanara, in centro a Bologna, intrattiene il lettore con una storia piacevole e scorrevole.
In occasione dell’uscita del libro, l’autore ha gentilmente svelato alcuni retroscena che lo hanno portato a scrivere il romanzo.
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Il tortellino muore nel brodo: un titolo singolare. Come nasce la scelta?
Mi piaceva l’idea di ingannare, in un certo senso, il lettore. Potrebbe essere benissimo il titolo di un libro da cucina, di ricette. E, invece, mentre lo si sfoglia, si scopre un noir che ha per protagonista un ristoratore la cui perspicacia lo porta a risolvere il caso in questione. L’ho scelto perché contiene sia la parola morte sia cucina, quindi un abbinamento che ben risponde alle esigenze del romanzo. Inoltre, è anche un gioco di parole, un modo di dire tipico bolognese. Infatti, quando con Carlo Carabba e Andrea Delmonte stavamo discorrendo di narrativa e cucina, mi fu chiesto come andava servito il tortellino, secondo la tradizione. Dissi loro che col ragù fa fatica, con la panna si riprende, ma il tortellino muore nel brodo. Ecco, da tutta questa serie di situazioni, si è arrivati a convincerci che era il titolo giusto per il romanzo.
Successivamente, curiosando nel web, ho scoperto che in un’intervista dello chef Barbieri con Carlo Lucarelli, quest’ultimo, in uno scambio di battute, suggeriva al primo, come titolo del prossimo libro, proprio questo Il tortellino muore nel brodo. La coincidenza mi è sembrata di buon auspicio.
Un romanzo degli opposti. In che modo gli opposti coesistono nella vita, in generale, e in quella dei suoi personaggi?
Il romanzo, così come la vita, si fonda sull’incontro dei contrasti. E, in ultima analisi, mi piace molto giocare con i contrasti, confondere i confini tra bene e male. Mi piace soprattutto creare personaggi strampalati che all’apparenza risultano malvagi. Dei balordi dal cuore d’oro. Spesso ci si ritrova davanti l’incarnazione della giustizia e invece si rimane delusi perché così non è. Se pensiamo allo stesso commissario, Iodice, egli non rispecchia affatto la tradizione. È un insieme di opposti anche lui. Infatti, in questo senso mi inspiro molto al crime story contemporaneo americano. Ingrediente indispensabile, in questo incontro degli opposti, è l’ironia. E l’autoironia. Con il sorriso sulle labbra è più facile scalare le montagne.
Quasi tutti i personaggi sembrano muoversi seguendo un progetto, ciascuno il proprio, ma, in questa costellazione di eventi prestabiliti, l’accidentalità si manifesta senza tante cerimonie. La domanda è: nella vita quanto incidono i progetti e quanto l’accidentalità?
L’accidentalità incide moltissimo sulla nostra vita. Questo non significa che i nostri progetti siano futili. Servono per darci la direzione, gli obiettivi, la nostra linea. Il percorso prestabilito però viene arricchito poi dall’accidentalità. In questo senso, il romanzo è un festival delle coincidenze. La medesima nascita di questo romanzo potrebbe benissimo rientrare in una serie di fortunati eventi. Anzi, di occasioni.
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Bologna viene descritta in modo inusuale, attraverso la sua cucina tradizionale, come i tortellini per esempio. In che modo la storia delle città italiane incontra la storia delle loro cucine? In che modo l’una racconta l’altra?
Di Bologna si dice che sia la Dotta e la Grassa. La Dotta perché possiede la più antica delle università, la Grassa perché a Bologna siamo delle buone forchette. E questo ce lo confermano anche i turisti che apprezzano moltissimo i nostri piatti, certe volte migliori che a casa loro. In un certo senso, Bologna si racconta con i suoi piatti, racconta la sua storia e la vita di chi l’ha vissuta.
Emilio riflette sulla tradizione e sulla nuova era digitale. Anzi, quotidianamente prova a mantenere in equilibrio questi due estremi. Secondo lei, cosa ha portato di positivo l’era digitale alla tradizione?
Sebbene io non sia la persona più tecnologica del mondo, dalla mia posizione di ristoratore non posso fare a meno di cogliere la grande invasione della tecnologia nella vita di tutti i giorni delle persone. Se un tempo sedere a tavola era una buona scusa per parlarsi, oggi è molto più probabile che i commensali stiano sì chiacchierando, ma non con chi sta loro di fronte. È l’abuso, quindi, il problema, come per ogni altra cosa. Se usata in modo intelligente, può essere una risorsa. Sempre sposando il punto di vista del ristoratore, per esempio, applicazioni come Tripadvisor possono essere una ricchezza, ma certe volte le critiche vengono elargite gratuitamente e senza l’occasione di trarre un insegnamento. Per una questione di contrappasso, un po’ di tempo fa mi è venuto in mente l’idea di recensire i clienti. Ritornando all’accidentalità e quindi alle occasioni, su «La Repubblica» ho iniziato a tenere una rubrica in cui, con ironia e senza rancore, recensisco i miei clienti. All’inizio temevo che si potessero sentire a disagio sapendosi nel mirino del ristoratore, invece ho scoperto che si divertono molto.
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Emilio Zucchini, sebbene non sia uno chef, è uno che di cucina se ne intende. Anzi, è uno che ha imparato tutto dalla migliore maestra, la nonna. Ma pensarlo semplicemente come il gestore di una certa trattoria a Bologna è a dir poco riduttivo. Cosa rappresenta Emilio, in verità?
A dire il vero, come Emilio anche io faccio il ristoratore. Gestisco e non cucino, e questo ci differenzia in modo particolare. Quando parlo di lui, scivolo poi a parlare di me perché vi è una simbiosi molto profonda che ci unisce. Per esempio, Emilio è un grande ascoltatore, io invece sono più propenso alla chiacchiera, ma mi piacerebbe moltissimo imparare ad ascoltare di più. Infatti, ci sono momenti e aspetti in cui vorrei essere più come lui.
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Per la prima foto, copyright: Ali Yahya.
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