Un memoir dalle solide radici. “I fantasmi di una vita” di Hilary Mantel
Scrivere di sé è una tentazione che negli ambienti narrativi è abbastanza frequente ma è un’operazione tutt’altro che semplice.
Hilary Mantel è fra le più influenti scrittrici inglesi. Sua la famosa trilogia sui Tudor (da cui è stata tratta anche una serie tv, Wolf Hall, che ha vinto il Golden Globe 2016 come miglior miniserie), i cui primi due volumi, Wolf Hall e Anna Bolena, una questione di famiglia, hanno vinto per due volte, unica donna a riuscirci, il prestigioso Man Booker Prize.
Ha scritto le proprie memorie nel 2003 (pubblicate da Einaudi tre anni dopo). Ora arriva in una nuova edizione realizzata da Fazi – che cura nel nostro Paese le opere dell’autrice di cui l’ultimo pochi mesi fa – intitolato I fantasmi di una vita, nella traduzione di Susanna Basso, collana Le Strade (titolo originale Giving Up the Ghost: A Memoir).
Spiega ai propri lettori come ci è riuscita dando per giunta degli utili consigli:
«Non so bene come fare a scrivere di me. Se adotto uno stile sembra che quello subito si ripudi da solo, prima ancora di arrivare alla fine di una frase. Allora penso, basta, scrivo come viene. Allargo le braccia e dico, c’est moi, tanto vale abituarsi. Darò fiducia al lettore. È questo che raccomando sempre a chi mi chiede consigli per farsi pubblicare. Dà fiducia al lettore, smettila di imboccarlo, di trattarlo con paternalismo, riconoscigli un’intelligenza almeno pari alla tua, e piantala con tutte quelle schifose smancerie: ehi tu, là infondo, la vogliamo finire con i trucchi? Semplici parole su un semplice foglio di carta. Ricordati l’insegnamento di Orwell, una buona pagina di prosa è come una lastra di vetro. Sforzati di affilare la memoria, di scortecciare la sensibilità. Taglia ogni pagina che scrivi di almeno un terzo. Basta con le tue futili piccole metafore. Prova a capire quel che vorresti dire. Poi dillo nel modo più forte e più immediato possibile».
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È evidente quindi che parlare di sé non significa inanellare fatti ed eventi occorsi, ma qualcosa di più: esplorare i sentimenti più intimi, far emergere lo straordinario nell’ordinario, entrare in una dimensione “altra” da cui forse non vi è più ritorno.
Diverse sono le parole vive in quanto vissute che fanno da filo conduttore, ma ce n’è una intorno alla quale ruota la narrazione, e sono i dolori fisici che hanno perseguitato la protagonista.Sono proprio questi a conferire un aspetto catartico all’opera. Le atmosfere cupe e sofferenti fanno da sfondo a un racconto perennemente sospeso tra sogno e realtà.
Il libro inizia nel 2000 con una riflessione sulla presenza del fantasma del proprio padrino nella casa del Norfolk che sta cercando di vendere. Presenze sinistre che associa come un segno premonitore all’arrivo delle emicranie che la tormenteranno sempre, per poi citare un evento molto importante che è il secondo matrimonio con lo stesso uomo.
Il discorso poi prosegue riannodando il filo dei ricordi. La presenza dei nonni e delle loro case, innanzitutto.
In realtà sono tante le case che hanno abitato la sua vita. Come se non fosse tanto lei che ci ha vissuto ma piuttosto le case che hanno vissuto in lei. Luoghi concreti dove cresce e si sviluppa la sua personalità.
Riceve un’educazione cattolica cristiana la piccola Hilary ed è una bambina di salute cagionevole, introspettiva nel carattere e “sensitiva” nella personalità. Le ristrettezze economiche della famiglia di origine, e una madre che ha sacrificato un temperamento artistico per un lavoro precoce in fabbrica, come accadeva una volta, la segnano nel profondo e tuttavia le consentono di guardare le cose sia private che del mondo con occhio lucido e critico e forse è proprio questo che le permetterà di diventare una brava scrittrice.
«Non dovresti giudicare i tuoi genitori. Nella maggior parte dei casi, hanno fatto del loro meglio. Erano confusi, senza un soldo e non si potevano permettere un avvocato, ce li avevano tutti contro, erano penosamente giovani. Per stare dietro al dettaglio perdevano di vista l’essenziale, e non sapevano come sfangate la settimana. Erano innamorati, oppure furibondi, hanno subito tradimenti oppure amare delusioni e, proprio come la nostra generazione, si sono aggrappati a tutto pur di raddrizzare le cose, cambiarle, avere un’alternativa: hanno spezzato i vincoli della logica e si sono raccolti intorno alla debolezza e alla disperazione e hanno sputato in faccia al destino. È questo che fanno i genitori. Credono che l’amore l’abbia vinta su ogni cosa».
Ma è quando parla della malattia cronica che la lascerà sfiancata, ovvero l’endometriosi, a cui seguirà un intervento invasivo in giovane età che non le permetterà di avere figli, che la lettura de I fantasmi di una vita diventa più toccante. Un evento che fa da baricentro all’intero percorso autobiografico. La medicina non ancora pronta o non formata in modo adeguato ha avuto un ruolo decisivo per il suo futuro. Dolori lancinanti scambiati per normali dolori della crescita femminile e in alcuni casi presi per nevrosi da curare con psicofarmaci che poi porteranno a un processo infiammatorio irreversibile.
Il fantasma assume così le sembianze delle occasioni perdute e dei figli mancati, fino a dargli una precisa fisionomia che l’accompagneranno andando a rafforzare il suo immaginario.
«Quello che avrei voluto nella vita era una possibilità. Tempo a disposizione, per tornare indietro sulla mia vecchia idea che non mi importava avere figli; tempo e modo di domandarmi se erano state le circostanze a modificarsi, oppure io a cambiare opinione. Nessuno è in grado di prevedere che la sua partita si può chiudere a ventisette anni. Avrei dovuto agire al tempo in cui mi sono innamorata, e adesso che un’era della mia esistenza si è conclusa, e le mie compagne di scuola incominciano a diventare nonne, mi manca il bambino che non ho mai avuto».
Non si sente in grado, a causa dei problemi di salute, di svolgere un lavoro impegnativo, proprio lei che facendosi adulta si rende conto di essere particolarmente ambiziosa. Accetta lavori semplici o impiegatizi che non la soddisfano. Si butterà quindi a capofitto nella scrittura, e galeotta fu la Rivoluzione francese e le ricerche svolte in una biblioteca.
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La salvezza può arrivare da cose inaspettate e Hilary Mantel in questo è stata straordinaria. Ha dimostrato cioè di avere forza di volontà e capacità di rialzarsi nonostante le sconfitte.
Oltre ad aver vissuto in Africa per il lavoro del marito, un geologo, per lo stesso motivo ha vissuto anche in Arabia Saudita. In quest’ultima Nazione, come sappiamo, gli abiti delle donne non sono certo quelli occidentali. A dirla tutta non c’era nemmeno il problema di uscire perché doveva stare chiusa tutto il giorno fra le pareti domestiche. Il suo corpo era cambiato in peggio per via della terapia ormonale e dunque con un tendaggio – come lo definisce, più che un vestito – che copriva le linee piuttosto arrotondate, non c’era bisogno di dare spiegazioni a nessuno. Un “essere” senza dimostrare qualcosa a qualcuno; un’essenza che poteva prevalere sull’apparenza. Ebbene, circostanze che avrebbero demoralizzato chiunque diventano per lei l’occasione propizia per crescere e migliorarsi: scrive ispirandosi al periodo trascorso in Medio Oriente.
I fantasmi di una vita è un memoir dalle solide radici, scritto in modo sapiente e coraggioso. Il punto maggiore di forza al di là dei contenuti in senso stretto del libro è però un altro: riesce a fare della propria, un’esperienza universale, come un romanzo.
Per la prima foto, copyright: Suzy Hazelwood su Pexels.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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