Un marchingegno poetico di bellezza contro gli abusi del potere. “Il Levante” di Mircea Cărtărescu
Mircea Cărtărescu è uno dei più importanti scrittori del panorama letterario europeo. Il suo trittico Abbacinante è forse uno dei risultati artistici più significativi e complessi degli ultimi decenni. Dico artistico perché la scrittura di Cărtărescu richiede impegno e attenzione. È una scrittura “massimalista”, eccessiva e sensoriale, parente stretta della poesia sperimentale (lo stesso Cărtărescu si definisce soprattutto poeta) e che dialoga con altri linguaggi (in primis quello scientifico). In attesa che Il Saggiatore pubblichi l’ultimo lungo tomo del nostro (dal titolo Solenoid), Voland, la casa editrice che lo ha fatto scoprire in Italia, ha da poco mandato alle stampe Il Levante (traduzione di Bruno Mazzoni), un “oggetto” narrativo apparso alla fine degli anni Ottanta, quando inequivocabili erano gli scricchiolii del regime comunista.
Dico “oggetto” narrativo perché il libro viene diviso in dodici canti ed è attraversato da racconti, intromissioni “post-moderne” dell’autore che non perde occasione per farci sentire la sua presenza ai comandi dell’azione letteraria (con la menzione delle ultime scene della E la nave va di Fellini quando alla fine del film e del viaggio per mare vengono mostrate le impalcature della troupe cinematografica a Cinecittà), continui riferimenti letterari, salti temporali dall’Ottocento ai giorni nostri in un vortice continuo e anarchico che ha il potere di lasciare il lettore in uno stato di “tensione continua”.
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Il testo parla di un gruppo di rivoltosi alla cui testa c’è Manoil, “la creatura più cara” nella storia raccontata dallo scrittore, un giovane che insieme alla sorella Zinaida, allo spasimante francese di lei Languedoc Brillant e ad altri affascinanti e pazzi personaggi tenta di spingere il suo popolo alla ribellione contro il despota crudele e corrotto (un evidente rimando alla figura di Ceaușescu):
«Popolo mio, dov’è la tua maturità? Gente mia, dov’è il tuo coraggio? Dèstati, scaccia il fanariota, trasforma in marmo il laterizio di stallatico. Tu hai un futuro d’oro, tu sei un popolo segnato da Dio. O Patria, l’eternità dura solo un attimo, eppure mi sei cara e ho piacere di parlare di te.»
Inizia così un viaggio che coinvolge terra, mare e cielo, in un continuo corpo a corpo con la tradizione letteraria (dall’Ulisse omerico alle Metamorfosi ovidiane, da Jacques Il Fatalista ai mondi psicotropi di Pynchon). Un viaggio “fantastico” che ridiventa reale nel momento in cui alcuni rivoluzionari, deposto il despota, diventano a loro volta dei tiranni sanguinari (come il terribile Iugurta):
«Si è modificato il potere, ma non è cambiato nulla… Poiché il povero romeno viene parimenti spennato, i profittatori sono gli stessi sotto altro nome, si sa.»
La scrittura di Cărtărescu ha d’improvviso delle accelerazioni, si focalizza su un oggetto, su una visione, su un fenomeno e quel fenomeno, quella visione producono altre visioni, altre sensazioni, altre immagini, come se l’occhio dell’autore fosse una macchina affamata di tutto lo scibile umano, di tutte le possibili varianti con cui la vita ci mostra la sua inarrivabile bellezza. Lo stesso Cărtărescu afferma che:
«la realtà ha raggiunto un livello di complessità tale da richiedere una molteplicità di strumenti in concerto per essere compresa. In effetti, oltre a queste discipline, mi rifaccio anche ad altre più antiche, come l’alchimia, che ovviamente è molto meno “scientifica”, ma dall’altro lato offre archetipi e filtri interpretativi molto interessanti per un narratore.»
Tale espansione della visione letteraria ha una metafora potentissima proprio nella macchina da scrivere che negli ultimi istanti di quest’epopea scatenata diventa una specie di gigante:
«La macchina mi distrugge l’appartamento e si estende fino a comprendere tutta Bucarest sotto châssis, finché il rullo le si innalza in alto arrivando a toccare le stelle in cielo. Le compatte lettere di piombo si rivestono dell’etere eterno mentre sul nastro si incrostano le valve dei quasar… Un altro universo più grande, un Ĕlōhi̅m gigantesco con dita di comete e supernove, batte su questa macchina, sopra il lenzuolo dell’immortalità, lettere deformi, transfinite, in silenzio ed estasi.»
La realtà grigia e oscura della vita quotidiana sotto Ceaușescu può essere riscattata soltanto dalla bellezza della poesia, dalla bellezza della creatività letteraria che ridà senso all’esistenza, ed è l’unica vera resistenza alle leggi assurde del potere. Per questo tutti i personaggi di Levante tornano alla fine della vicenda nella casa di Cărtărescu in una specie di festa creativa che afferma il credo dello scrittore rumeno:
«Sprofondare dentro di sé presi da voluttà, innalzare un pensiero sotto un firmamento di brillanti, profferire un poema, inventare un marchingegno: ecco cosa può fare l’eroismo umano. Più di questo non è per me e non lo è nemmeno per voi.»
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La scrittura di Cărtărescu tenta così di “vivere”/”sopravvivere” in un’altra dimensione della visione, una visione quasi allucinogena, ultraterrena (nel pantheon dei suoi miti anche John Lennon, “tra i maggiori divulgatori di un certo immaginario legato alla riscoperta della dimensione visionaria”). L’allucinazione, parente stretta della fede spassionata nella letteratura (come nell’opera di un altro grande riferimento per Cărtărescu, Franz Kafka), è l’unica risposta possibile, anzi l’unica veramente sensata alla malvagità noiosa del male, del potere che tenta di limitare in ogni modo le potenzialità maestose degli uomini.
Per la prima foto, copyright: Mario Calvo su Unsplash.
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