Un libro prezioso. “Il canto dell’ippopotamo” di Alberto Garlini
Per udire Il canto degli ippopotami bisogna essere pronti.Io non lo ero. Mi son fatta pronta all’ultimo romanzo di Alberto Garlini (Mondadori) sotto le scudisciate dei ricordi, del mescolarsi isterico di risa e lacrime, dell’infezione delle stimmate di esser nata a nordest, in provincia, negli stessi anni dei protagonisti, e di aver condiviso con l’autore la ricerca di una vocazione nelle parole e l’amicizia di Pierluigi Cappello, fil rouge del racconto e di molte vite.
Questo è un libro che misura l’esatta resistenza della corda umana quando si tende oltre il proprio limite; che annota con coraggio quel che accade quando la fune inizia a sfilacciarsi e poi si spezza: è lì, nello schianto, e non altrove, che impariamo a essere noi stessi. E dall’usura del cappio, che si scioglie e ti fa cadere nel baratro, non rimangono tra le dita che filamenti, con cui si prova a tessere una nuova tela di ragno. È fragile, se pensiamo alla tela; ma veloce, operoso, instancabile, a tratti inesorabile è il lavorìo del ragno. La ragnatela dei ricordi ha l’intreccio esile e resistente del pizzo a tombolo, ed è il mantello (o l’ombrello che ti regala un anziano vedovo, come accade in uno dei mille racconti bizzarri, dolcissimi e disperati del libro) sotto cui, proteggendo i ricordi, i ricordi degli amici che se ne vanno, mettiamo al riparo la nostra stessa vita.
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È un libro che dimostra, come afferma Antonio Muñoz Molina, che un romanzo è soprattutto uno stato mentale, e che per costruire l’io poetico o l’io narrante, oltre a fagocitare parole altrui, a saccheggiarle, ad affermare e ripetere con temerità grandi sciocchezze, lasciamo molte vittime lungo il cammino. E immoliamo noi stessi. A quelle vittime e a noi, un giorno, dovremo chiedere scusa. Raccontarlo in pubblico, svestendosi dei panni di chi è socialmente accettabile, come fece san Francesco d’Assisi (l’episodio del viaggio nella città del santo, alla ricerca di «una tribolazione di cui ci si possa gloriare» è uno dei più pulcri e laceranti del libro), è un atto di coraggio e integrità. Mostrare a tutti il proprio rimbalzare di gomma contro il muro di una quasi follia, spellandosi a ogni urto fino a rimanere in carne viva, tramuta il disperato «non riesco, non riesco» di chi sta cercando di farsi strada tra i rovi della vocazione letteraria, in un perdono urbi et orbi, in un’accettazione completa di sé e del mondo; trasforma il seme di un albicocco germogliato in casa, tra il cotone bagnato, come si faceva un tempo alle elementari, nella pianta rigogliosa di un giardino finalmente adulto. «È quando sbagliamo, e sbagliamo tanto, che prendiamo nuove strade».
Incanta e angustia, questo piccolo, ironico, crudo e personalissimo manuale di antidoti al disagio mentale, allo scuro petrolio della depressione, all’amore tossico che ti scegli proprio perché ti faccia male, perché solo in quel dolore viscoso ti riconosci, o vuoi riconoscerti.Entrare, uscire, scappare, gli ostelli, le stanze condivise, le feste in cui imbucarti se c’è da mangiare e, soprattutto, da bere; cercare il calore di qualsiasi pelle; sentire in ogni cellula «la solitudine dello squattrinato davanti agli scaffali del supermercato», prima di trovare il proprio posto nel mondo. Oppure leggere Il capitano Alatriste, un campione della «lingua carsica» che è in ognuno di noi, e ricongiungerla a quella della tradizione letteraria più pura (in questo caso, nientemeno che il Secolo d’Oro spagnolo), e scongiurare così le ricadute, tener lontano quel tipo di desiderio che «non finisce mai, corrompe anche le migliori persone, perché vivere fuori dal desiderio e dall’odio, dalla rabbia e dal risentimento, è quasi impossibile». Nello stesso periodo, ma agli antipodi dello scuro petrolio in cui Garlini faticava molto a rimanere a galla, l’amico Pierluigi maturava, con altrettanta sofferenza, un’idea di purezza, nel quotidiano e nella scrittura, che sanava le ferite tra l’uomo e le parole con un unico lemma: «La vita è poca cosa: un tetto e un catino d’acqua fresca».
È un contributo filologico all’opera di Pierluigi Cappello elaborato sul campo, questo libro; tenuto a mente mentre Pierluigi diventava Pierluigi Cappello. È un saggio spontaneo, diretto, naïf, scanzonato, generoso; ci orienta nel distinguere la poesia dal poeticume, e lo fa partendo da un’autoironia che disarma. Ci dice quanto sia difficile scegliersi i poeti; e che non esiste bellezza senza bruttura, violenza, sporco, vergogna, cattiveria, insensatezza. In tutto. In ogni persona. In ogni cosa. Ci impone di domandarci se l’arte non serva a rinfocolare tutto questo orrore, anziché a dissolverlo in bellezza; ci fa concludere che se la violenza del mondo e l’ingiustizia della vita ti costringono a fare quel che non vuoi fare, scrivere è smascherare l’abominio e ridurlo all’impotenza. Scriviamo perché l’irreparabile è già accaduto; l’estremo atto d’amore della letteratura è dare sepoltura con decenza a ciò e a chi non c’è più. In tutto c’è stata bellezza, lo insegna allo stesso modo Manuel Vilas (a Pierluigi, credo, sarebbe piaciuto); e, accanto alla bellezza, appare limpida anche la strenua difesa dell’innocenza che l’opera di Pierluigi Cappello contiene. Ci avverte però, che l’impazienza degli innocenti, quando arriva al culmine, porta rivoluzione.
È un inno generazionale, Il canto degli ippopotami; e della coppia di amici Garlini-Cappello, della loro fede ed effervescenza culturale nel nordest italiano della metà degli anni novanta, quando «tutto ci parlava» ma l’altro lato della medaglia ci diceva che «erano tutti persone di successo, e se non eri di successo non eri nessuno» (el capanòn; ogni famiglia, un’azienda) ho ammirato da lontano il loro essere rimasti, l’aver insistito nel poiein, nel fare, nel fare le cose bene. Io che nel ’92 scappai a gambe levate in un altro Paese e senza un solo rimpianto, perché sentii che il genere di artigianato a cui volevo dedicarmi, il tra-ducere, il trasportare con cura le parole dalla sponda all’altra di un fiume, se fossi rimasta non mi avrebbe permesso di costruire nemmeno un ponticello di giunco.
Questo libro è, soprattutto, una lauda all’amicizia; a quella che rende tutto facile; che ti indica la strada mentre la percorre insieme a te; che senti che, stando insieme, sei toccato dalla sua grazia; che a un dolore altissimo riesce a dar forma di nube e di neve e di zolla nel prodigio di poche sillabe unite tra loro; che dona di sé solo il bello; che sorride sempre, e ride di gusto, perché «chi non ride non è una persona affidabile, chi non ride non può essere un poeta». L’amicizia di qualcuno che appariva a molti sotto il cliché della sfortuna, dell’infelicità e della limitazione, ma che in realtà «trovava felicità e salute in ogni persona, per questo amava stare tra la gente, e stando vicino a lui a un certo punto ci credevi, di essere sano e perfino felice».
Garlini narra, col disordine dell’affetto, ma saldando un cerchio (cercli), compiendo un ciclo: vocazione, abbandono, fatica, rinascita. Su tutto, Cappello aleggia.
Nel tempo, riuscii a costruire il ponticello di giunco; era lungo duemila chilometri,andava da Salamanca a Cassacco. Mi infilai dentro quella limpidezza umana e quella purezza letteraria. «Scrivere versi è preparare con ostinazione e con cura il proprio fallimento, portarne tutto il peso, non un milligrammo in meno» (Pierluigi Cappello, Il dio del mare, BUR). Immaginate il peso del fallimento di chi, con altrettanta ostinazione, quei versi, un giorno, decide di iniziare a tradurli per salvarsi la vita. Follia e conforto. Epifania e dubbio. Mi feci coraggio e gli scrissi, per avvisarlo. E una sera suonò il telefono, quel telefono col filo, con gli sms, con cui legava stretti tutti i suoi amici:«Buonasera, sono Pierluigi Cappello, la disturbo?». Il telefono suonò poi molte altre sere, come se fosse suonato con altrettanta frequenza e naturalezza nei ventitrè anni in cui sono stata via dal nordest. «Ho scritto una poesia, volevo leggertela», e lo ascoltavo leggere e fumare in quel modo scenografico e insuperabile che Garlini descrive con precisione nel suo libro. «Come ti sembra?». Avevo poco da dire, perché, gli confessai quasi subito, mentre leggeva gli rubavo i versi come una forsennata, trascrivendoli in consecutiva, per poi tradurli subito, con un’impellenza quasi schizofrenica. E glieli restituivo sudati e tradotti, qualche giorno dopo, via sms. «Il mio Mario Benedetti è diverso dal tuo ma ti somiglia molto», gli dissi una sera; «ha scritto una difesa dell’allegria».
Ci siamo visti in faccia soltanto due volte, e stretti le mani e gli occhi.
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Un inverno, la stagione più propensa alle amicizie, gli raccontai in modo stringato (il racconto delle disgrazie non piaceva a lui e non piace a me) che dovevo attenermi alla misura dell’erba, che mi ero scoperta malata e il futuro diventava incerto. E quando arrivò lo Stato di quiete, pur sopraffatti entrambi dalla fatica, quando si è troppo stanchi per avere paura, rimaneva ancora la curiosità di sapere che colore aveva il pezzetto di tramonto che ognuno di noi vedeva dalla propria postazione del letto. Era l’ora in cui le api vanno a dormire, e un poco il nero che ti sporca le mani/è tutta la terra passata di qui.
Dopo, l’ho sognato spesso, vedendolo nella terra, sorridente, in tutta la terra passata di qui. Anche per questo Il canto dell’ippopotamo, di Alberto Garlini, mi è caro ed è prezioso: perché solo sporcandoti le mani, lordandole di terra, puoi ascoltarlo in tutta la sua purezza.
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