Un libro di rara forza. "La terra originale" di Eleonora Rimolo
Puntata n. 91 della rubrica La bellezza nascosta
«Ci hanno detto di uscire il meno possibile,/solamente se urgente: polveri sottili,/smog, troppe sirene moleste. Mi difendo/così dai batteri, dalle spore, dai sorrisi/che non avrei incontrato. Trascorro i giorni/della malattia respirando la stessa aria/di sempre, osservo la sua caparbietà/la comparo alla mia penso a chi andrà via/per prima. Intanto la plastica fonde/cerca asilo nei polmoni dei superstiti,/con la pioggia non si piò deglutire, brucia/l’ipotesi della resistenza, acre carità.»
La terra può essere patria o prigione, la terra spesso somiglia a un corpo, un corpo che può diventare luogo oscuro o pozzanghera di luce. Nasciamo dove capita, veniamo al mondo dove non scegliamo, dove siamo costretti ad accettare il fiato delle case, il passo degli abitanti, le cicatrici e le emorragie delle strade; nasciamo e dobbiamo raccogliere tutta la forza e tutta la nostra storia per cercare di scappare, di rincorrere un posto che sia nostro per scelta e non per costrizione.
Ci sono delle bufere private che gelano e portano a un passo dall’ipotermia, mareggiate personali che non la smettono di affogarci lo stomaco e ci sono rabbie di bambino che si sommano alle rabbie adulte e diventano massa, diventano ostruzione e l’unica cosa che ci resta per chiedere aiuto è la parola, una voce ferma e calma, una voce che possa tagliare e ricucire, una voce come la voce dei poeti.
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Poetessa è Eleonora Rimolo, nata a Salerno nel 1991, e voce ferma e calma è quella della sua raccolta di poesie La terra originale, edita da Lietocolle.
«A mani nude gli studiosi scavano le fondamenta/piegati sul fossato: dicono vi siano tracce/di una civiltà antichissima, credono a quanto c’è/dietro la superficie, pure se la pioggia impasta la pietra,/li sporca di melma, complica l’esercizio della ricostruzione./ È triste questo nostro bisogno di ordine,/lo strappare la radice e non trovare il seme:/è un franare senza poter bloccare la discesa,/precipitare a brandelli privi del termine caduta.»
Poesie nude queste di Eleonora Rimoli, poesie che si trascinano dietro la terra, la polvere, l’aria cattiva dei fuochi accesi nelle campagne, dei fuochi sporchi, saturi di veleno.
La terra originale è un libro di rara forza, fa uso dei posti che ci vivono intorno e dentro, si aggrappa alle terre dove veniamo a vedere la luce e dove facciamo i primi incontri, dove nascono le prime incomprensioni verso gli altri e verso noi stessi. Ogni poesia è un cumulo di immagini, è una escavazione, Rimolo si concentra sul corpo della natura e sul corpo umano, sugli addii e sulla malattia organica e di vivere; ogni poesia possiede la stabilità della prosa e come la prosa è dotata di incipit accattivanti.
«Forse è per esercizio o per necessità/che ci procura un dispiacere,/e se almeno leccarlo servisse/a pulire la stanza, a inumidire/la scorza delle tue ossa, allora/lascerei le ginocchia sanguinare/lascerei ai rapaci tutta la carne.»
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La materia di cui sono fatte le cose, il sangue che ci scorre nel corpo o la corteccia di un albero, un mazzo di fiori, l’erba infestata e la terra chimica, Eleonora Rimolo mette le mani nel fango, s’immerge fino ai gomiti, forse fin quasi alle spalle e cerca di tirare fuori tutto quello che vive sotto la superfice; lo fa con maestria e con sicurezza, lo fa con un’abilità stilistica invidiabile e così facendo riesce a raccontarci la sua personale visione dell’origine, della terra natia, con urgenza; e questa urgenza, questa fretta di mostrarci i suoi luoghi, attraverso parole che diventano diapositive, somiglia a una cascata, a un fiume in piena che ci mette sotto e ci costringe, prima dell’immersione, a ingoiare grossi bocconi di aria per riuscire a non affogare.
«Sono rimasta dove mia hai posato/mai spostata oltre la linea di contorno/di là della cinta muraria che protegge/i segreti dei vicini. Litigano nel buio,/le loro colpe conquistano l’appartamento/con un movimento sottinteso, inutile:/nell’intervallo tra una risposta e l’altra/gli affetti sono in erosione, la lesione/si apre in un fiore ostinato a riprodursi./Spio il detto, il non detto; la vita/in granuli è spaventosa, la paura/di assumerla mi spinge a vomitarla,/spegne i circuiti minimi dell’esserci/dentro le pozze fredde delle tue guance.»
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Le forme al buio spariscono, come spariscono i segni tratteggiati sul cemento per seguire il sentiero. Le forme al buio vanno assecondante con il tatto, con le mani che ne cercano i contorni; ci si orienta con il suono, cercando gli angoli familiari dove i passi fanno sempre lo stesso rimbombo. Ci si racconta raccontando altro, ci si cerca facendo finta di non cercarsi.
Per la prima foto, copyright: Sabine van Straaten su Unsplash.
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