Un libro che parla al bambino che sei stato. “Mio padre, il pornografo” di Chris Offutt
Sarebbe bello se esistesse un diritto alla felicità. Un credito perpetuo da poter portare all’incasso in qualsiasi momento, da far valere nei confronti di chi ci ha dato alla luce, del mondo che ci ha accolto, di tutti coloro che nella nostra vita per sorte o scelta si sono trovati ad avere un ruolo. In fondo le ferite più profonde che segnano lo sviluppo di un individuo nell’età della crescita sono legate proprio al trauma di veder tradita quest’aspirazione, di non poter esigere l’incasso dell’obbligazione dal proprio istituto di credito di riferimento: i genitori prima di tutti, poi gli altri. C’è chi per questo vive in una condizione più o meno latente da perenne creditore deluso o agguerrito, a volte estendendo tale modalità di relazione all’intero universo.
Diventare adulti forse significa soprattutto fare pace con la consapevolezza che quel diritto non esiste, e lo si può fare in due modi. Il primo è accettare di lasciare il conto aperto in una vecchia pagina dei propri diari e, sapendo che quel credito non sarà mai riscosso, vivere quasi dimenticandosene, come portando con sé senza nemmeno farci più caso un piccolo difetto o disturbo cronico, il setto nasale storto o un leggerissimo fischio all’udito che si risveglia in certe notti più umide di altre. Il secondo modo è fare i conti fino in fondo, fino a chiuderli del tutto: portare alle estreme conseguenze la consapevolezza che la felicità può essere un titolo a scadenza, impossibile da capitalizzare; che può anche durare solo il tempo di un battito di ciglia, di una corsa in bicicletta con gli amici, e poi di un bacio, e poi anni dopo di un abbraccio, di un saluto, di un profumo particolare, di una parola uscita bene dalle mani o dalla bocca, per essere infine, forse, sostituita da un sentimento di pace: un pareggio di bilancio sul display del contatore di cassa. Qualcosa che può essere e può non essere. Perché la felicità non è un diritto ma un dono, che in parte ci doniamo da soli.
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Di questo ci parla Chris Offutt in Mio padre, il pornografo (traduzione di Roberto Serrai, minimum fax, 2019) e la premessa mi è parsa necessaria per indicare sin da subito una porta di ingresso sul significato universale di un memoir magnetico, straziante, tenero, liberatorio, bellissimo, che però può sembrare il resoconto strettamente personale di uno scrittore che scrive a se stesso e per se stesso. E in effetti il binario su cui si svolge questa lancinante ricostruzione della vita di Offutt padre è quello doppio di una biografia che è insieme, e ancor più, autobiografia di Offutt figlio a uso di bilancio privatissimo. Ma, come capita quando chi scrive è un grande scrittore, nonostante la sordina apposta alla retorica e l’assoluto disinteresse per ogni didascalismo, le parole finiscono per vestire una maiuscola implicita: i figli sono Figli, i padri sono Padri.
La storia è nota e non vale la pena di inventarsi troppi giri di parole per raccontarla: Andrew J. Offutt con la sua morte lascia in eredità al figlio Chris, ultracinquantenne scrittore affermato, una scrivania, una sedia, un fucile e una stanza piena di manoscritti, libri, riviste, fumetti, carteggi, abbozzi e progetti legati alla propria attività di scrittore pornografico: otto quintali di erotismo più o meno estremo, osceno, indecente e perverso che testimoniano l’ossessione di una vita, quella con cui Andrew ha mantenuto la famiglia, materializzando la propria immaginazione sadomasochista in una produzione di centinaia di libri, in certi periodi scritti anche alla parossistica velocità di uno alla settimana, utilizzando diciassette identità diverse, alcune delle quali consolidate a tal punto da esondare nella vita reale.
Mio padre, il pornografo racconta in prima persona l’immersione di Chris Offutt in questa eredità fuori dall’ordinario, totemica per la combinazione di tipologia e dimensioni, e che non può che coinvolgere la coscienza dell’autore a vari livelli. Quello che è in prima battuta un lavoro archivistico e poi filologico diventa pian piano una discesa negli inferi della storia di sé e della propria famiglia. In questo corpo a corpo, un’operazione a cuore aperto svolta con la sensibilità, il coraggio e la precisione di un chirurgo, molteplici sono i livelli su cui si muove lo sguardo del figlio intorno e dentro il genitore: Andrew è uno scrittore; un padre che ha trascurato e vessato i figli e la moglie; un uomo ossessionato dalla propria torbida immaginazione; uno schiavo del proprio temperamento irascibile, maniacale e nevrotico, per cui la scrittura ha costituito forse uno sfogo capace di preservarlo da istinti peggiori. Sono piani diversi da affrontare e che aprono a ogni passo una botola verso la definizione dell’identità dell’autore che, parallelamente, è prima di tutto e in maniera decisiva, un bambino a lungo trascurato, poi uno scrittore che maneggia l’incandescente origine della propria motivazione originaria, infine un figlio che ha la rarissima opportunità di poter investigare l’anima del proprio padre fin negli angoli più oscuri, dove a nessuno solitamente è dato arrivare.
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La cifra di Chris Offutt sta nel condurre quest’indagine con spietatezza e candore, ma anche con una vista a tratti distaccata, da entomologo, per preservare la purezza dello sguardo sia da moralismi sia da eccessi di pathos. È un approccio che inizialmente fa costeggiare al racconto il rischio di raggelarsi in un eccesso di oggettività ma risulta in definitiva efficace soprattutto laddove la rinuncia a ogni censura lo porta a maneggiare materiali incandescenti per natura, a partire dal racconto degli abusi sessuali subiti da Chris stesso quindicenne per opera di un disgustoso ciccione pedofilo fino a giungere alle immaginazioni di pornografia violenta contenute nelle opere del padre. Il punto di equilibrio tra sincerità e pudore appare allora per quello che è: l’esito salvifico di un lunghissimo confronto con i propri fantasmi, di una faticosa autoeducazione alla verità e alla dignità. Un’idea di cosa significhi essere uomo tradotta in stile.
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Per il modo in cui si sottrae al patetico e all’empatico, per la postura da uomo eretto e savio indossata dal bimbo lasciato solo che parla dentro la voce dello scrittore, Mio padre, il pornografo è dunque un libro che si ama senza poterci fare l’amore. Ma proprio per questo è un libro che non si consuma nella lettura, non ti si stacca di dosso e se ne va lontano dentro di te, incamminato nelle tue profondità, una mano sulla spalla, insieme al bambino che sei stato.
Per la prima foto, copyright: Daiga Ellaby su Unsplash.
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