Un libro che non va oltre la banalità. “Finché il caffè è caldo” di Toshikazu Kawaguchi
A volte il compito del recensore pone grossi imbarazzi. Che dire del recente romanzo del giapponese Toshikazu Kawaguchi Finché il caffè è caldo (Garzanti, traduzione di C. Marseguerra)? L'imbarazzo si fa quasi senso di colpa nel non sapersi ritrarre dai pregiudizi che accompagnano la lettura di questo testo: il Giappone, l'alone favolistico, la quotidianità macchiata e non illuminata da rifrazioni magiche, il minimalismo lezioso, eccetera. Dispiace debuttare in maniera pregiudizievole ma è difficile non attribuire alle soluzioni narrative del testo il senso compiuto di un’originalità a buon mercato nel trattare la “macchina del tempo”.
Lo si è scelto tra i romanzi che i giornali chiamano “i casi letterari dell’anno” e già questo dovrebbe far riflettere. Cosa vuol dire caso letterario? Cosa vuol dire vendere milioni di copie ed essere tradotti in tutto il mondo? Quali possono essere le aspettative del lettore? Cosa ci accomuna?
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La trama, come si è detto, può sembrare originale: in una caffetteria giapponese si è chiamati a ritrovare se stessi. Una volta dentro, la vita esterna non conta più, ciò che vale è passare dal presente al passato per prospettarsi un futuro felice, o almeno tranquillo. Umanissima pretesa. Ma la trafila narrativa per soddisfarla è tra le più macchinose e insulse (si è cercato invano un altro aggettivo). Sei in una caffetteria speciale e devi rispettare cinque regole, una più insulsa dell'altra: sederti e attendere che il caffè ti venga servito; tenerti pronto a rivivere un momento importante della tua vita; bere il caffè a piccoli sorsi; non dimenticarti la regola fondamentale che consiste nel non lasciare per alcuna ragione che il caffè si raffreddi ed essere consci che, comunque vada, il presente non cambierà.
Basta pensare che un solo tavolino del bar su cui sedersi a bere in caffè “finché è caldo” è adibito all'andirivieni del tempo vissuto, a patto che la signora che vi è sempre seduta si alzi per recarsi in bagno: solo allora un altro avventore può sedersi e aspirare a “correggere” il presente col passato. Chi è stato abbandonato dall'amante può tornare indietro al tempo in cui l'amante era al suo fianco. Umana rivendicazione, ma aspettare che la signora si rechi in bagno per realizzarla risulta a dir poco rozzo. Il difetto di Finché il caffè è caldo è proprio questo; non riuscire a trascendere la banalità per mezzo della banalità stessa. Gioco intellettuale e rischioso che non è nelle corde dello scrittore giapponese. La banalità in lui resta banalità nonostante la favola.
La letteratura è la massima garante dell'immaginazione: si può immaginare di tutto e scriverlo, a patto che la scrittura sia ispirata e calibrata in rapporto all'intenzione. Cosa fa invece l’autore giapponese? Decide per una prosa quanto mai semplice che tradisce il difetto della semplicità e che fa della tanto strombazzata “scorrevolezza” una modalità al limite del sopportabile. L'intento di spezzare la quotidianità con la favola è attuato da sequenze di gesti e parole che non riescono a fare della banalità la rappresentazione dell'eccezione. Il sospetto di pedanteria “asiatica” è forte e si ritorce contro lo stesso recensore che non vorrebbe cadere nel tranello del pregiudizio.
«Perché ci insegna che basta poco per essere felici». Questo è lo slogan promozionale della casa editrice. Può bastare? Vien da correggere in “troppo poco”, nonostante il tentativo di riassumere l'esperienza umana. Un romanzo non è uno strumento caritatevole, anche se molti lettori pretendono dalla letteratura un responso consolatorio. Ammesso il “fattore umano”, cosa offre in questo senso il libro dello scrittore giapponese? Umanità consolata dalla favola, verrebbe da dire, ma trattandosi di un romanzo e non di un salmo chiesastico o di una pubblicità di cioccolatini, gli strumenti letterari di cui si serve risultano alquanto stantii, buoni per un'anticamera di dentista.
L'andirivieni tra presente e passato (e futuro) non è certo invenzione recente, ma nel caso in questione è espediente che tradisce un artificio che non poggia su basi solide, bensì su un calcolo di una facile presa presso il pubblico. L'imbarazzo ha spinto il recensore allo scrupolo di documentarsi il più possibile sul testo da recensire, scoprendo che si tratta di un romanzo che si piazza tra i primi nelle apposite classifiche. Non contento è andato a spulciare su Internet giudizi dei lettori che in grande maggioranza hanno ritenuto trattarsi di un libro bellissimo. E qui l'imbarazzo si fa doppio se non triplo: il gusto del cosiddetto “pubblico” che il più delle volte nuoce alla circolazione della letteratura. Ma non alle vendite. Non è scandaloso che un libro venda, e nemmeno che spesso la vendita sia sproporzionata alla qualità, sorprende piuttosto che venda un libro come quello di Kawaguchi che non racchiude alcun vero elemento di attrattiva, se non un nemmeno troppo furbesco impianto favolistico.
Attorno al tavolino e alla sedia magica ruotano storie umane: una ragazza lasciata dal fidanzato, una donna che non riesce a comunicare con la sorella e altre simili. Che il dramma quotidiano dell’uomo funga da pretesto alla favola è del tutto accettabile, a patto che la conversione sia sostenuta dalla scrittura, non importa se al servizio di legittimi “trucchi del mestiere” da parte dello scrittore. Ma qui a stagnare è proprio il “mestiere” di scrivere che non si fa perdonare. Ripetiamo, basta approfittare dei “trucchi” per fare un caso letterario? O non è piuttosto giusto considerarlo un caso commerciale. Dei più ingiustificati? Tutti gli stereotipi (i difetti) della narrazione e di una certa trattazione del Sol Levante vengono offerti al lettore: mistero, viaggi nel tempo, rapporti tra genitori e figli, marito e moglie, amanti, e chi più ne è ha più ne metta. Bene: il repertorio è noto e fonte di capolavori, ma qui si gioca la carta della partecipazione in un momento storico desideroso di sopravvivenze urgenti e necessariamente ordinate. Nel nutrire seri dubbi sulla qualità letteraria di Finché il caffè è caldo, comprendiamo che si tratta di un romanzo frutto della suggestione sofferta in un periodo storico toccato da un inaspettato e inspiegabile flagello a cui non possiamo che opporre impotenza e paura. Senz'altro il libro è stato scritto prima del “coronavirus”, ma la fruizione pubblica cade in un momento in cui impotenza e paura inducono a una primordiale “semplicità” sia di aspettative sia di distrazioni dalla disperazione. Ben venga la favoletta del tavolino, della sedia e del caffè…Elementare e sbrigativo intervallo distensivo. Basta per un momento non pensare troppo alle nostre disgrazie. In quanto alla felicità...
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Cosa significa sentirsi più felici, dopo aver letto un libro? Felici per cosa? Significa forse sentirsi riconciliati con i propri problemi, con la propria misera quotidianità? Un buon libro lascia spazio alla riflessione, spesso anche alla tristezza, a un qualcosa infine di indefinibile che non sempre è facile a scrivere. Semmai, in questo caso, il lettore è felice di aver finito di leggere. Fermiamoci qui.
Per la prima foto, copyright: Petr Sevcovic su Unsplash.
Per la terza foto, la fonte è qui.
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