Un’italiana in Corea del Sud, tra paure e pregiudizi
Di Anna Maria Mariani è uscito da pochi giorni, per le edizioni Exorma, collana Scritti Traversi, il piccolo saggio autobiografico Dalla Corea del Sud: tra neon e bandiere sciamaniche.
Si tratta di uno spaccato di vita vissuta raccontata da una giovane laureata che trova in un impiego come insegnante di lingua italiana presso un college nella campagna sudcoreana, una parentesi esperienziale della durata quattro anni, che si rivela in qualche modo straordinaria per la protagonista, una fonte di arricchimento professionale e di crescita personale davvero unica. Il testo si presenta in una forma che si avvicina al diario, che tale però, secondo l’autrice, non vuole essere. Infatti, la ricostruzione degli eventi si sviluppa a partire dalle mail inviate ad amici e conoscenti per dare notizie di sé, ma anche per mantenere un legame con il mondo familiare e sociale di provenienza. Sono il racconto delle giornate scandite dagli impegni lavorativi, l’incontro con i ragazzi suoi allievi, la sistemazione nella stanza del dormitorio, la relazione con i colleghi, quasi tutti, come lei, stranieri. Così, tra le righe emerge la storia delle difficoltà, delle scoperte, dei problemi che la protagonista deve quotidianamente affrontare nell’impatto con una civiltà così profondamente diversa da quella di provenienza.
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E attraverso le diverse vicende personali, l’autrice lascia filtrare un mondo che per una occidentale è pregiudizialmente e realmente alieno ma che, con il trascorrere del tempo, diventa sempre meno tale.Una realtà culturale nella quale la tradizione più atavica si mescola con lo scintillio del progresso tecnologico, per dare luogo a una contaminazione che è il vero paradosso di quelle terre.
L’impatto, che all’inizio dell’esperienza è disorientante, ha a che fare con il clima, freddo glaciale d’inverno e scandito dai monsoni nella stagione estiva, con le paure, che con il tempo e la consuetudine saranno superate, legate a presunte malattie endemiche o alla presenza di specie animali che, in realtà, lì non esistono, con il fatto di doversi adattare alle tradizioni culinarie locali.
Ma il vero, primo e principale problema da affrontare è costituito dalla lingua. Così strutturalmente diversa, senza alcuna assonanza che possa anche lontanamente venire il soccorso per consentire una pur minima comprensione. Così, suppliscono la gestualità, le foto sul cellulare, lo sguardo, la mimica, tutto ciò che, in qualche modo, possa compensare la mancanza di un simbolismo linguistico comune. Si concretizza allora una essenzialità comunicativa che può diventare alienante, una vera fonte di disagio, tanto estraniante da condurre alla decisione, per alcuni, del ritorno a casa. Poi, nel tempo, si esercitano le poche espressioni linguistiche via via acquisite, fino ad arrivare a una abilità comunicativa che, peraltro, non sarà mai piena padronanza. Attraverso il racconto, si coglie il graduale approccio della protagonista e dei suoi colleghi, tra i quali anche un’altra italiana, alle usanze, alle tradizioni, alle festività e alla cultura locali. Fino alla scoperta di consuetudini impensabili, come la sorprendente statistica che vede la Corea del Sud al primo posto nel mondo quanto a numero di interventi di chirurgia plastica.
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Il racconto, a metà tra il diario di viaggio e la narrazione del vissuto personale ed emozionale dell’autrice nella relazione con un mondo per certi versi inafferrabile, si presenta in uno stile semplice e fluido, con poche increspature. Gli episodi di vita quotidiana scorrono e trasmettono con immediatezza il contesto ambientale e culturale nel quale si svolgono gli eventi. E questo, nonostante qualche metafora azzardata e alcune licenze lessicali a volte non proprio pertinenti e utilizzate come a voler impreziosire un testo che non ne avrebbe affatto bisogno. Perché la ricchezza di questo “non diario” sta proprio nella schiettezza, nella possibilità di cogliere aspetti e contenuti di una cultura lontana e atavica, con l’approccio semplice e diretto di una giovane ricercatrice, con un dottorato in tasca e la necessità di andare altrove per poterlo spendere.
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