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Un’estate all’insegna della Beat Generation

Un’estate all’insegna della Beat GenerationL’avete notato anche voi? Quest’estate sembra che sia tornato alla ribalta il tormentone Beat Generation, quel movimento folle e sconclusionato che ha fatto impazzire l’America degli anni Cinquanta e ha piantato il seme della rivoluzione culturale che è poi sbocciata nel suo pieno splendore negli anni Settanta. Se da una parte molti giovani leggono ancora con ardente passione On the Road di Jack Kerouac, è pur vero che la Beat è una generazione che oggi fa battere il cuore solo a una cerchia ristretta di nostalgici e sognatori. Eppure, questi mesi estivi dell’anno 2016 sono stati testimoni di due eventi che hanno sollevato il velo di polvere che si andava facendo sempre più pesante sopra la scatola dei ricordi ruggenti di quella generazione sempre in viaggio: il 22 giugno è stata inaugurata, niente meno che al Centre Pompidou di Parigi, la mostra Beat Generation, mentre in Italia è uscita per i tipi del Saggiatore la monumentale biografia di William Burroughs scritta da Barry Miles.

Sarà che il mondo sta subendo dei cambiamenti difficili da comprendere, sarà che i tragici eventi che continuano a stravolgere le nostre vite fanno nascere la voglia di mettersi in cammino, o forse sarà il bisogno di ritrovare la speranza a riportarci con la memoria indietro nel tempo, a quel preciso momento storico dove tutto è cambiato per sempre. Al di là della validità letteraria e artistica di ciò che i Beat hanno generato, è pressoché indubbio il ruolo che quegli uomini hanno avuto nella rivoluzione culturale che ha investito l’intero Occidente tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Jack Kerouac,William Burroughs,Allen Ginsberg, Gregory Corso,Brion Gysin e gli altri, sono letteralmente partiti alla volta di un nuovo modo di vivere infischiandosene delle aspettative sociali, del lavoro e della famiglia nel senso più tradizionale del termine. Le riflessioni sull’esistenza, partorite intorno a un tavolino sghembo in qualche locale fumoso di New York o di Parigi, sono diventate lenti innovative attraverso cui osservare e osservarsi. Questi uomini tanto sregolati quanto sofferenti hanno trascorso i loro anni migliori sperimentando il nuovo in ogni forma dell’arte, dandosi come unico obiettivo la conquista della libertà.

Un’estate all’insegna della Beat Generation

«Everything belong to me because I’m poor» è la frase di Kerouac che accoglie i visitatori della mostra che il Centre Pompidou ospita fino al 3 ottobre di quest’anno. Si parte con una decisa presa di posizione in contrasto con la radicata tradizione capitalistica statunitense e subito si entra in sintonia con i Beat. La mostra, e dunque il visitatore, li segue nei loro viaggi dalla New York di Sulla strada alla California di Lawrence Ferlinghetti, poi in Messico in sordide camere d’albergo e da lì nella Tangeri di Pasto nudo di Burroughs, per finire all’Hotel Beat di Parigi, ritrovo famigliare per tantissimi artisti americani.

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Un viaggio sulla strada dei più grandi nomi della Beat Generation in cui il visitatore fa esperienza diretta delle più variegate sperimentazioni artistiche del movimento: stralci dei testi più famosi, disegni, filmati originali, spezzoni di documentari, collage, dipinti. Non mancano inoltre i taccuini originali e alcuni dipinti semisconosciuti di Jack Kerouac, le pubblicazioni della libreria-casa editrice di Ferlinghetti, le prime edizioni dei libri che hanno segnato la storia del movimento e, per finire, c’è perfino la riproduzione della camera d’albergo di Brion Gyson all’Hotel Beat. Immancabile, naturalmente, il “rotolo” originale su cui nel 1951 Kerouac scrisse in una sola lunga e compulsiva seduta Sulla strada.

Un’estate all’insegna della Beat Generation

Immaginate la bellezza di essere catapultati in mezzo a quel gruppo di amici tanto eccentrici quanto determinati nel loro perseguire obiettivi fuori dal comune, pensate di poterli ascoltare mentre danno voce alla profonda sofferenza che attanagliava ciascuno di loro, respirare la stessa aria satura di hashish… Il Centre Pompidou, con le sue pareti piene di foto, le teche con i Levis e le scarpe da lavoro, i filmati in loop e le colonne sonore, un po’ ci riesce a farvi sentire vicino a loro. E se poi vi torna la nostalgia, o Parigi è fuori dalla vostra portata, Io sono Burroughs (traduzione di Fabio Pedone, Il Saggiatore, Milano 2016 pagg. 832, 40 euro) vi restituirà un’idea precisa e dettagliata di quella che è stata la vita di una delle più grandi menti della Beat Generation.

 

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Un’estate all’insegna della Beat Generation

Afflitto per tutta la vita dal Grande Male, William Burroughs è stato un personaggio controverso i cui libri sono considerati geniali per la sua capacità di ritrarre il mondo della tossicodipendenza in presa diretta. Uomo dissoluto e profondamente turbato, ha vissuto ai margini della società condividendo camere d’albergo e pasti frugali pur avendo a disposizione una grande fortuna. Il suo stile unico e gelido ha posto le basi per la cultura punk intesa nel suo senso più ampio e non solo musicale, furono moltissimi infatti gli artisti che passarono da lui al “Bunker” per trarre spunti creativi. Barry Miles, che con i protagonisti della Beat ha condiviso alcune avventure, ha saputo cogliere e restituire le più profonde ossessioni e le più precise sfaccettature di uno dei personaggi più tormentati e geniali del secolo scorso. Una vita a cui vale forse la pena dedicare un po’ del nostro tempo di lettori soprattutto in questa fine dell’estate in cui al Beat Generation è tornata a far parlare di sé.

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